Alice in Borderland (stagione 2), la recensione

La seconda stagione di Alice in Borderland chiude il cerchio narrativo svelando il mistero dietro i giochi mortali

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Spoiler Alert

La recensione della seconda stagione di Alice in Borderland, disponibile su Netflix

"Ogni cosa ha la sua morale, se si sa trovarla."

Così Lewis Carroll teorizzava nel suo folle e controverso Alice nel Paese delle Meraviglie, spunto (saggiamente tradito) di Alice in Borderland. Difficile, per chi abbia visto la prima stagione della serie Netflix, rintracciare una morale nelle morti che si susseguono al suo interno; l'unica logica apparente è quella del divertimento di un pubblico invisibile, che costringe i personaggi a continui, estenuanti giochi letali associati alle carte da poker.

La seconda stagione non devia dal tracciato, ma rallenta sensibilmente il ritmo del racconto per concentrarsi sulla componente psicologica che ciascun gioco porta con sé. Fiducia, tradimento, sacrificio; temi certo già affrontati dalla serie, ma che nel nuovo arco trovano un respiro più ampio e profondo. Il viaggio prosegue su binari già noti allo spettatore, correggendo però il tiro rispetto a quanto visto nella prima stagione.

Come prima, meglio di prima

Più che di una vera stagione a sé, sarebbe in effetti il caso di parlare di un secondo volume: non c'è ellissi e ritroviamo tutti i personaggi principali (tra cui diversi che davamo per spacciati), ancora intenti a sopravvivere al folle puzzle di carte. I personaggi principali vivono, carismaticamente parlando, della rendita conquistata nella prima stagione; il che vale, ahinoi, anche per i due piatti protagonisti, irrimediabilmente eclissati dalla statura dei comprimari.

Ma Alice in Borderland non ignora i suoi limiti, e ridimensiona radicalmente la presenza di Arisu (Kento Yamazaki) e Usagi (Tao Tsuchiya) a favore di altre figure; prima tra tutte Chishaya (Nijirō Murakami), che nel nuovo arco rivela lati inattesi e un passato sorprendente. Verrebbe quasi da pensare, osservando il focus talvolta esclusivo riservatogli in diversi episodi, che fosse lui il protagonista inizialmente inteso da Haro Aso, autore del manga da cui la serie è tratta.

Vecchio e nuovo

Man mano che ci si avvicina alla conclusione della cruenta competizione, cresce nei sopravvissuti - così come nello spettatore - l'esigenza di scoprire la reale natura del gioco. Contrariamente a Battle Royale e Hunger Games (o ai più illustri predecessori, La preda più pericolosa e Il Signore delle Mosche), scopriamo qui che la mano assassina è sempre stata fuori dall'universo in cui si muovevano i protagonisti, intrappolati in un isekai esistente solo nelle loro menti; un cambio di prospettiva che in parte fiacca la potenza climatica dell'epilogo, ma sottolinea l'ineluttabile cecità con cui la morte colpisce.

Ed eccola, la morale nascosta di Carroll, invisibile finché non cade il velo dell'allucinazione collettiva; ciò che Alice in Borderland grida a gran voce è di assaporare la vita a fondo, uscendo dal proprio guscio di alienazione e insicurezza. La grande mietitrice potrebbe colpire in ogni momento, fuori da criteri di merito o da logiche di probabilità; vale la pena spendere il proprio tempo al meglio. Certo, non è un messaggio rivoluzionario, e la serie non vuole esserlo; sfrutta spesso i cliché del genere a proprio vantaggio, senza però distaccarsene mai davvero, cullando lo spettatore in una riposante sensazione di déjà-vu.

Fessure nel pattern

Non è infatti nella trama né tantomeno nel sovvertimento finale che Alice in Borderland prova a dire qualcosa di innovativo; ci sono, qua e là, sprazzi di critica al granitico sistema sociale giapponese, che spinge allo stremo l'equazione tra autoaffermazione lavorativa e dignità come essere umano. Facile vedere in Arisu l'archetipo dell'otaku affetto da gaming disorder, scelta che favorisce l'identificazione di una determinata fetta di pubblico con un personaggio socialmente inutile che, trasportato in un universo alternativo, diviene fondamentale per la riuscita delle missioni.

Fuori da ogni comoda schematizzazione, va però ricordata l'esistenza di uno dei personaggi di rottura più riusciti della recente narrativa nipponica; parliamo di Hikari Kuina (Aya Asahina), grintosa sirena la cui personalità prescinde in toto dal suo percorso di riassegnazione di genere. Il fatto che Kuina sia una ragazza trans ci viene rivelato da un flashback nella prima stagione e non viene mai più menzionato; è qualcosa che appartiene al suo passato, ma che non incide sulla donna che è oggi. Una visione, duole dirlo, difficilmente rintracciabile nella letteratura giapponese (e non solo), tuttora ancorata a stereotipi retrogradi in merito alla rappresentazione di personaggi LGBTQ+.

Joker

Vale la pena spendere qualche parola sull'enigmatica scena finale della serie; dopo l'idillio del risveglio nel mondo reale, salvifica ventata di speranza in cui ci vengono restituiti tutti i protagonisti lasciati in punto di morte nell'isekai, Arisu e Usagi - in questa dimensione, appena conosciutisi - si godono una passeggiata nel giardino dell'immacolato ospedale che ha accolto i sopravvissuti della catastrofe. Alice in Borderland si chiude su una folata di vento che spazza via tutte le carte da un tavolino sito nel prato; o meglio, tutte tranne la carta del jolly, fissa nel suo inquietante sorriso beffardo.

Diverse le possibili interpretazioni di questa chiusura, assente nel fumetto d'origine: se è vero che la presenza di un'ennesima carta potrebbe suggerire che il gioco non sia ancora concluso, è anche valida la visione in cui il jolly - che può sostituire qualsiasi carta del mazzo - sia la prefigurazione del futuro di Arisu che, risvegliatosi a nuova vita, può ora divenire tutto ciò che desidera. Tuttavia, le note inquietanti con cui si chiude la scena lasciano supporre che la prima sia l'ipotesi più plausibile; a sostegno di ciò, il fatto che il Joker sia un personaggio presente nel fumetto di Aso, finora mai mostrato però nella serie.

The end?

Sebbene il manga si concluda con il rientro di Arisu e degli altri personaggi nel mondo reale, l'adattamento televisivo di Alice in Borderland sembra lasciare spazio alla possibilità di una continuazione; possibilità supportata dalla recente pubblicazione di un sequel del fumetto originale, intitolato Alice in Borderland Retry. Risale invece al 2015 l'uscita di uno spin-off del manga, sempre firmato da Aso, dal titolo Alice on Border Road.

È chiaro che vi sia parecchio materiale a disposizione qualora Netflix volesse proseguire la serie ambientata nel letale limbo di Borderland; e se il racconto si fermasse qui, va dato atto ad Alice in Borderland di aver mantenuto un'assoluta coerenza di stile e ritmo, concludendo in modo forse non memorabile, ma gustoso un percorso di solida godibilità. “Non son stata io stessa a svegliarmi questa mattina? Mi pare di ricordare che mi son trovata un po' diversa. Ma se non sono la stessa, dovrò domandarmi: chi sono dunque?”, si diceva la piccola Alice di Carroll; allo stesso modo lasciamo i nostri protagonisti, risvegliati da un sonno che, seppur nell'immobilità del coma, li profondamente cambiati.

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