L'Altra Grace: la recensione

Colpevole o innocente, abile manipolatrice o inconsapevole vittima? Alla ricerca delle risposte nella bella miniserie di Netflix Alias Grace

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La caratteristica principale di Alias Grace è il suo continuo oscillare tra molti piani di lettura. Per certi versi si tratta di un racconto dalle potenziali sfumature thriller trasportato in uno scenario Ottocentesco, ma è anche una rielaborazione del romanzo classico di Thomas Hardy in cui esplodono le tematiche femministe di Margaret Atwood. E poi c'è la storia vera, il fascino della ricostruzione che corteggia il realismo, ma lo rende estremamente godibile. Tante verità, tanti modi di essere, e non possiamo non tracciare un evidente paragone tra lo stile della serie e il cuore della sua protagonista. Alias Grace è un'ottima proposta di Netflix (andata in onda prima su CBC), rigorosa e sofisticata come forse solo The Crown prima sulla piattaforma.

Tratto dall'omonimo romanzo di Margaret Atwood, che tanta fortuna ha avuto quest'anno nella trasposizione di The Handmaid's Tale, Alias Grace prende spunto da una vicenda reale. Nell'Ottocento, la povera migrante Grace Marks (Sarah Gadon) giunge in America, e qui sperimenta una vita di soprusi, quasi sempre a connotazione maschile. Le tristi vicende culminano in un'accusa di doppio omicidio. Qui i fatti si confondono, le versioni si accavallano, le parole tradiscono. Spetta al dottor Simon Jordan (Edward Holcroft) tentare di fare luce sull'accaduto, ricostruendo i fatti tramite il racconto dell'interessata. Quindi capire se la giovane è innocente o colpevole, se è vittima di se stessa o se è un'abile manipolatrice.

L'anima mistery della serie è il collante della storia, ma è bene dire che non è il punto fondamentale dello show. Su di essa si imperniano i vari livelli temporali, con il passato di Grace incastonato poco a poco nel suo presente, fino alla totale riunificazione. Eppure l'obiettivo della ricerca della verità appare spesso come uno strumento dalla potenza retroattiva, utile ad illuminare, finalmente, porzioni di una vita degna di essere raccontata. In definitiva, non è tanto importante conoscere la natura degli effetti, e capire chiaramente cosa è accaduto e quale è stato il ruolo di Grace, ma risalire alle cause di un malessere celato e soffocato. E da quello parlare finalmente del vero tema della serie.

Qui la scrittura di Sarah Polley (Stories We Tell) si dispone favorevolmente ad accogliere lo sguardo femminile della poetica della Atwood, che già era stato centrale in The Handmaid's Tale. In quel caso lo strumento era la distopia, qui l'ambientazione da period drama, ma in modo uguale il calvario di Offred e l'esistenza di Grace assumono a più riprese un valore simbolico. Grace – misurata e calibratissima l'interpretazione di Sarah Gadon – in questo senso appare come una nuova Tess dei d'Uberville. Ancora una volta una giovane creatura plasmata e mortificata, repressa da un ambiente dominato da uomini che sembrano l'uno l'incarnazione dell'altro, destinata al gesto violento come unica possibilità di riscatto. Di fronte ad una simile prospettiva, l'unica soluzione è la fuga, di qualunque genere concepibile. Una fuga della mente, forse consapevole o forse no, ma necessaria.

La regia di Mary Harron si incunea, solida e misurata, tra le buone performance di un cast formato tra gli altri da Anna Paquin, Zachary Levi e Rebecca Lidiard (anche David Cronenberg in una parte). Eppure anch'essi, come le scenografie, appaiono schiacciati su uno sfondo nel quale l'unico elemento tridimensionale è lo sguardo di Grace, i suoi occhi azzurri, i suoi capelli rossi – ribelli nei momenti più importanti – schiacciati sempre da una cuffietta immacolata. E si fa un grande lavoro sull'esaltazione in scena degli oggetti cardine che – in quanto concreti – possono finalmente restituirci una visione attendibile del personaggio. Sarà allora la trapunta lavorata ancora e ancora, “una foglia dopo l'altra”, simbolo all'interno di una storia di simboli. Ma anche la candela che illumina lo spazio angusto delle notti di Grace, unica a cui mormorare riflessioni sincere.

Alias Grace sfrutta bene i giusti sei episodi a disposizione, e ogni calo di ritmo viene ripreso da una storia che giustifica ogni ampia digressione, come una “nuova foglia” necessaria per capire l'intero disegno. Gli stessi dialoghi o monologhi, che oscillano tra ricercatezza e verbosità, restituiscono un'eleganza di fondo brutalmente violata dai momenti più sgradevoli. Senza dubbio una miniserie di alto valore, misurata e rigorosa.

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