Alcatraz 1x11 "Webb Porter": il commento

Il penultimo appuntamento di Alcatraz non riesce a gestire bene la tensione in vista del finale di stagione...

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Se il compito di una puntata immediatamente precedente al finale di stagione è quello di accrescere la tensione, tenere sulle spine gli spettatori, gettare qualche spunto che faccia parlare di sè nella settimana che precede la conclusione (della serie o della stagione?) allora si può dire che Webb Porter fallisce in ognuno di questi obiettivi. Ed è un vero peccato, perché proprio dopo un inizio di stagione un pò stentato, anche se non mediocre, Alcatraz aveva dato l'impressione di aver trovato un proprio equilibrio, di aver ben presenti alcuni spunti da sviluppare, una serie di puntini che si sarebbero potuti collegare tra loro in seguito.

Ricollegandoci con la citazione che apre, o quasi, la puntata: "perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinuncino all'azione"... o a modificare in corsa e ormai a ridosso del finale di stagione una formula che fin dalla prima puntata si è scelta come definitiva e immutabile. Perchè se da un lato la formula di un procedurale, come Alcatraz è, può essere accettata tranquillamente, un pò meno lo sono state le dinamiche dello svolgimento delle varie puntate fin troppo uguali a loro stesse e ripetitive nelle diverse fasi dell'indagine e nella costruzione della psiche malata del carcerato della settimana.

Webb Porter non fa eccezione in tal senso e anzi, quella che forse risulta essere l'unica sostanziale differenza con le puntate precedenti, e cioè il fatto che la squadra brancoli per un pò nel buio cercando di capire l'identità dell'uomo riapparso dal passato, viene purtroppo risolta malamente e con una soluzione fin troppo banale. Per il resto l'identikit è quello di un killer, stavolta di donne, fuori di testa a causa del solito trauma infantile (la madre cercò di affogarlo da giovane), che si serve dei capelli delle sue vittime per costruire le corde del suo archetto per violino.

Tornando alla citazione iniziale con cui si apre, o quasi, l'episodio, il "buono" in questo caso è proprio la dottoressa Sengupta che, attraverso un violino e il potere della musica, riuscirà a squarciare il muro che separa il resto del mondo dall'uomo (interpretato da Rami Malek, il 90% degli spettatori lo riconoscerà per Una notte al museo, mentre i più fortunati se lo ricorderanno nella bella miniserie The Pacific). Risvegliatosi nel 2012, Porter inizierà a lasciarsi alle spalle una scia di sangue, finché come al solito i nostri non lo fermeranno.

In tutto ciò si inseriscono i soliti piccoli elementi che portano avanti la trama orizzontale, o almeno parti di essa, nell'attesa che le varie parti del puzzle inizino ad incastrarsi tra di loro. Sempre più chiara l'ignoranza, più o meno estesa, di tutti i personaggi coinvolti, non solo Rebecca e Soto, ma anche Beauregard e Hauser, si rimane in attesa di conoscere chi veramente tira le fila delle indagini e chi ha interesse a far risvegliare i detenuti cinquanta anni dopo. L'episodio si chiude con la dottoressa Sengupta che riapre gli occhi improvvisamente, la sensazione di dejavu è forte e lo è anche la sensazione che nel passato scene simili siano state gestite meglio.

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