Alcatraz 1x07, "Johnny McKee": il commento

Alcuni temi interessanti ma che si sarebbero potuti sviluppare meglio, e Alcatraz presenta la peggiore puntata vista finora...

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"Abbiamo tutti le nostre macchine del tempo: quelle che ci riportano indietro, i ricordi, e quelle che ci portano avanti, i sogni", affermava Jeremy Irons in The Time Machine. Ma quando quei pochi ricordi si riferiscono ad un passato ormai morto e quando quegli stessi sogni non vanno aldilà delle sbarre di una cella dalla quale non si uscirà mai più, allora quale speranza rimane per i vecchi carcerati di Alcatraz, forse vittime di una macchina del tempo molto più concreta, che si sono risvegliati in una realtà che non gli appartiene e per fini ancora sconosciuti? E se quei sogni e ricordi fossero molto più importanti di quanto si possa pensare? Interrogativi che sarebbe stato interessante esplorare, ma che invece finiscono relegati in un breve colloquio tra Hauser e Jack Sylvane, mentre tutto intorno si sviluppa la peggiore puntata andata in onda finora.

Da H.G. Wells a Jules Verne, facciamo la conoscenza di Johnny McKee, fan sfegatato dello scrittore francese che si diletta a uccidere persone usando sostanze chimiche letali. Lo schema si ripete: alle indagini della squadra, che ormai rodata non sbaglia un'intuizione e traccia con semplicità il percorso che la porterà all'arresto dell'uomo, si alternano i sempre lodati flashback, che purtroppo a questo giro mancano il bersaglio e mettono in scena una dinamica fin troppo prevedibile nei suoi esiti per poter appassionare. E la stessa, solita motivazione che va a spiegare il perchè della follia del killer è forse la più banale presentata fino a questo momento, con McKee che, a causa di una umiliazione subita da ragazzo, si trasfigura in giustiziere dei "bulli" della società, fino alla cattura finale.

L'episodio, nel suo sviluppo piuttosto blando e poco avvincente, richiede un notevole sforzo per accettarne le premesse e lo svolgimento: dal consueto carcerato che, tornato in libertà, persegue gli stessi crimini senza modificare minimamente il proprio modus operandi, al soggetto della puntata che passa agilmente da un lavoro all'altro lasciandosi una scia di sangue alle spalle (in particolare un avvenimento, rigorosamente e inevitabilmente off-screen, che riguarda una piscina, è davvero difficile da accettare). Probabilmente il momento meno riuscito si ha quando la serie viene messa a confronto con una delle premesse meno plausibili, ma tacitamente finora passata per buona, cioè quella della protagonista che accetta tranquillamente di non sapere nulla del lavoro per il quale sta rischiando la vita, per il quale il suo compagno è morto, per il quale ha scoperto che il proprio "zio adottivo" è in realtà il fratello del nonno ricomparso e non invecchiato di un giorno. Rebecca, interrogando Jack Sylvane, ad un certo punto si ricorda di essere un'investigatrice, e cerca di spostare il discorso su domande più interessanti (a proposito, l'elemento "buca sotto la cella d'isolamento" può aggiungersi alla lavagna delle teorie sui misteri).

Funziona meglio la scena finale, in cui vediamo Hauser leggere un brano delle Metamorfosi di Ovidio accanto alla dottoressa Sengupta, ancora in coma. I sogni che la dormiente continua a fare, come conferma Beauregard, ci rimandano a quanto affermato da Sylvane poco prima, cioè che l'uomo non riesce più a sognare (la sottrazione di sogni e ricordi - pensiamo anche agli studi della dottoressa nel passato - di cui si faceva cenno all'inizio assume contorni molto concreti). Ed è evidente anche il richiamo al tema dei libri, dalla passione di McKee per Jules Verne, al personaggio del bibliotecario del flashback, al testo che viene letto da Hauser alla fine della puntata. Bei collegamenti tematici, ma che purtroppo rimangono solo facili rimandi di superficie che non riescono a restituire, salvo sporadici momenti, alcune riflessioni sulle quali si sarebbe potuto puntare.

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