Alcarràs, la recensione

Restìo a mostrare le sue emozioni come i suoi personaggi, Alcarràs è un raro film di pura osservazione, che trovando la naturalezza come chiave del suo sguardo sta già dando conto della sua opinione: questa realtà non potrà più esistere, solo un film potrà conservarla.

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La recensione di Alcarràs, al cinema dal 26 maggio

Con il particolarismo di un luogo specifico, incorniciato dal titolo, e un conflitto vestito da ipocrisia sostenibile tutta moderna - i pannelli solari che rubano spazio vitali ai contadini, cancellandone il mestiere e il motivo d’esistenza - Alcarràs di Carla Simón apre con un’eccezionale forza a questioni senza tempo: la terra è del padrone o di chi la lavora? Cos’è un futuro sostenibile?

Ovviamente dalla parte dei contadini, la regista e autrice catalana non offre però risposte facili né pietismi di alcuna sorta, ma usa la materia viva del suo racconto (la terra e i corpi) per creare un omaggio agrodolce di un mondo che sta per scomparire e che con questo film sembra voler salutare una volta per tutte.

Costruito come un affresco antico di un nucleo familiare osservato tra le sue diverse generazioni, Alcarràs è un dramma però senza climax, in tutto anti-melodrammatico. Dopo una breve contestualizzazione visiva del panorama rurale catalano, posata e distaccata, Carla Simón apre infatti subito al grande problema del film, per poi osservarne le conseguenze a braccia conserte, come se lasciasse procedere la realtà da sé verso le sue naturali conseguenze.

La notizia è tanto semplice quanto sciagurata: una famiglia contadina di Alcarràs, coltivatrice di pesche da generazioni, deve liberare il podere e i campi entro l’estate perché il padrone ha deciso di riconvertire tutto a “coltivazione solare”. Il nonno non ha mai firmato alcun pezzo di carta e il suo diritto sulla terra, sigillato con una stretta di mano e ottenuto per un gesto di gratuita generosità (la sua famiglia aveva protetto quella del padrone durante la guerra civile), non può più essere provato. Costretti ad accettare l’imminente stato di cose, la famiglia non può che continuare a vivere fino alla fine onorando la terra attraverso il lavoro, cercando ognuno a modo suo il modo più discreto per affrontare il dolore di quella perdita.

E così i pannelli solari, squadrati ed anonimi, piano piano cominciano a specchiare in lontananza le braccia, il sudore, l’errore e la sofferenza umana (i problemi familiari, le proteste sindacali, il dolore fisico). La tecnica e la convenienza, sostenibili in senso generale, diventano la rovina di un ecosistema familiare e antropologico. I ricordi di una vita vengono spazzati via dalle gru, la memoria degli individui viene violata nei suoi oggetti simbolici, a prescindere dall’età - un vecchio albero di fico per il nonno, una macchina dove giocare per i bambini. Procedendo per piccoli momenti di gioia e dolore e di minuziosa quotidianità, Alcarràs ci racconta questo suo mondo di privata decadenza con un’emotività strabiliante, sempre trattenuta ma pulsante sotto la superficie del visibile.

Carla Simón trova emozione e significato soprattutto negli sguardi durissimi degli adulti e dei ragazzi, le cui relazioni umane (conflittuali a tanti livelli generazionali) si costruiscono e si raccontano solo e soltanto a partire dai gesti. Se i dialoghi, quindi, non sono mai un ponte tra le persone, ciò che conta per comunicare è l’intenzione con cui ognuno agisce verso l’altro o esprime sé stesso. Trovando in questo tipo di realismo la sua efficacia narrativa, Alcarràs si scopre un film strabiliante, capace di raccontare ogni sua dinamica senza spiegarcela nemmeno una volta.

Restìo a mostrare le sue emozioni come i suoi personaggi, Alcarràs è un raro film di pura osservazione, che trovando la naturalezza come chiave del suo sguardo sta già dando conto della sua opinione: questa realtà, così come la vediamo, non potrà più esistere. Solo un film potrà conservarla.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Alcarràs? Scrivetelo nei commenti!

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