Al Posto Tuo, la recensione

Con pochissime idee e purtroppo anche pochissima personalità, Al Posto Tuo spreca l'occasione di giocare con due corpi originali del cinema italiano

Critico e giornalista cinematografico


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Luca Argentero è magro, atletico, in salute e quindi anche attraente.
Stefano Fresi è grasso, insicuro, costantemente a dieta controvoglia e quindi anche poco attraente.
Da questo presupposto finge di partire Al Posto Tuo, perché poi in realtà il film di Max Croci vive di continui compromessi con una missione buonista. Lo scambio che la trama impone ai due protagonisti (dovranno vivere l’uno al posto dell’altro per imposizioni aziendali, solo così avranno la speranza di mantenere il loro posto di lavoro) non migliorerà la qualità della vita del più grasso dei due, ma convertirà lo scapolone fiero in uomo di famiglia, cioè ai migliori sentimenti e ai legami duraturi.
Il convogliamento a giuste nozze non si vede ma è dietro l’angolo.

Mettere a confronto il bello per eccellenza del nostro cinema con il più noto dei corpi esagerati poteva portare a risultati mirabolanti, era un’idea degna davvero di un esito migliore. Perché Al Posto Tuo fin dall’inizio sembra rifiutare le solite coppie. Non cerca le dinamiche da Stanlio e Olio (uno croce dell’altro), non quelle da Bud Spencer e Terence Hill (uno svelto e divertito, l’altro pesante e più ignavo) e nemmeno quelle dei Blues Brothers (in perfetta armonia nonostante le differenze), ma stabilisce un conflitto che sembra disinteressarsi delle dimensioni degli attori. Come se non bastasse poi il film separa i due quasi subito, per farli incontrare solo raramente e in interazioni poco significative.

Al Posto Tuo è un film che ne contiene due separati o, che dir si voglia, è un film con due episodi intrecciati ma sostanzialmente distinti. Purtroppo non si può nemmeno dire che le due tracce siano ascoltabili da sole, tanto l’amalgama suona stonata. Alcuni ruoli sono infatti tarati su standard teatrali caricati (il capo, le sfortunate avventure occasionali di Fresi, la personal trainer e addirittura l’acquirente giapponese), mentre i protagonisti e il loro mondo vivono di battute e recitazione più realiste. Il film è ripreso con stile invisibile ma, solo in alcuni tratti, le scene in azienda sembrano avere le soluzioni di regia e la camera a mano di The Office. Le gag sono principalmente fisiche e non veicolate attraverso i dialoghi ma, come già detto, poi i due corpi del cartellone sono sfruttati pochissimo.

C’è insomma ben poco di vivo in questo film che, stabilita la trama e quale sarà la propria struttura (piazzare i personaggi in un luogo al quale non sono adatti), come in una coazione a ripetere ricalca tutto il catalogo del già noto. Non si tratta di seguire una struttura e le regole di un genere, che andrebbe benissimo, ma di non riuscire in quella gabbia a trovare una voce personale, finendo per raccontare la solita storia nella solita maniera. E il fatto che poi il film, sostanzialmente, non sia divertente, non abbia uno humor riconoscibile e originale, se non per qualche intemperanza di Stefano Fresi, sembra la dimostrazione più evidente di tale mancanza di personalità.

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