Air - La storia del grande salto, la recensione

Dentro ad Air c'è il segreto di pulcinella del miglior cinema mainsteam hollywoodiano: scrittura d'autore e regia commerciale

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Air - La storia del grande salto, al cinema dal 6 aprile

Si gioca tutto Ben Affleck con questo film e parte fortissimo: musica, montaggio che imposta il periodo (gli anni ‘80) e poi ancora marchi, oggetti e dialoghi a dinamite, ben scritti e potenti. Lui che da regista aveva sempre flirtato con il cinema più commerciale, cercando vie personali e alle volte spiazzanti, questa volta non corre rischi e mette tutto quello che ha per creare il miglior cinema mainstream americano. Fine artigianato per la conquista dello spettatore con classe, almeno tanto quanta ne mette Matt Damon per battere Adidas e Converse nel conquistare la famiglia Jordan a firmare un contratto con la Nike per una linea di scarpe dedicate a Michael prima ancora della sua prima partita nell’NBA. 

Quella di Air è una storia americana al 100% in cui tutti i coinvolti sembrano un po’ scemi (tranne Matt Damon e Viola Davis), eppure, alla fine ci verrà confermato dai cartelli finali, sono una banda di vincenti. Quando leggiamo dei guadagni e di come sono entrati nella storia (ognuno di loro) ci sembrano ben più grandi e meritevoli di quel che abbiamo visto, più delle incertezze, delle pigrizie, degli sbagli, delle stranezze e delle idiozie intorno alle quali si è dovuto muovere il personaggio di Matt Damon per riuscire a convincere sia la Nike che la famiglia Jordan a siglare un accordo come non se n’erano mai redatti. Tutto per soldi. L’unico vero metro di valutazione etica possibile per quella società. 

È uno script d’autore quello di Alex Convery (la sua prima sceneggiatura per il cinema) ma è un film commerciale quello che gira Affleck. Uno pieno di spiegazioni ben mascherate dentro botta e risposta recitati benissimo. Air, come già Argo, ha una sua maniera molto delicata di muoversi intorno alla commedia e di farci ridere di questi personaggi, specialmente di Phil Knight, lo strano manager della Nike interpretato da Affleck che si ritaglia forse la parte più strana e difficile del film. Questa storia di gente ordinaria con questioni ordinarie e vite ordinarie (che bella la confessione di Jason Bateman riguardo al poter perdere tutto) così dentro al loro tempo da voler rischiare il lavoro per aspirare alla grandezza. Che poi vuol dire al guadagno. Guadagno che non gli ridarà la figlia, non gli riempirà una vita vuota passata a guardare VHS e li lascerà soli al tavolo a mangiare (come desiderano!).

È un film sui suoi anni e ce lo gridano tutte le canzoni notissime dell’epoca che tempestano la colonna sonora, tutti i brand che si vedono, gli abiti, i monitor giganti e i dettagli d’epoca su cui Affleck insiste. Non è un film anni ‘80 ma un film anni ‘80 al cubo, nonostante non lo gridi ma anzi sappia riprendere il trucco e i gioielli di una segretaria per far notare quanto siano ancorati alla loro epoca. C’è un grandissimo lavoro dietro questo film che è la definizione stessa di convenzionale e prevedibile ma è anche portato con una grazia e un mestiere invidiabili. Anche quando esagera nelle spiegazioni, quando si dilunga un po’ troppo e finisce per essere didascalico, c’è la pasta della tradizione migliore del cinema americano: pensato per tutti e pieno di cose per pochi.

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