Air - La storia del grande salto, la recensione
Dentro ad Air c'è il segreto di pulcinella del miglior cinema mainsteam hollywoodiano: scrittura d'autore e regia commerciale
La recensione di Air - La storia del grande salto, al cinema dal 6 aprile
Quella di Air è una storia americana al 100% in cui tutti i coinvolti sembrano un po’ scemi (tranne Matt Damon e Viola Davis), eppure, alla fine ci verrà confermato dai cartelli finali, sono una banda di vincenti. Quando leggiamo dei guadagni e di come sono entrati nella storia (ognuno di loro) ci sembrano ben più grandi e meritevoli di quel che abbiamo visto, più delle incertezze, delle pigrizie, degli sbagli, delle stranezze e delle idiozie intorno alle quali si è dovuto muovere il personaggio di Matt Damon per riuscire a convincere sia la Nike che la famiglia Jordan a siglare un accordo come non se n’erano mai redatti. Tutto per soldi. L’unico vero metro di valutazione etica possibile per quella società.
È un film sui suoi anni e ce lo gridano tutte le canzoni notissime dell’epoca che tempestano la colonna sonora, tutti i brand che si vedono, gli abiti, i monitor giganti e i dettagli d’epoca su cui Affleck insiste. Non è un film anni ‘80 ma un film anni ‘80 al cubo, nonostante non lo gridi ma anzi sappia riprendere il trucco e i gioielli di una segretaria per far notare quanto siano ancorati alla loro epoca. C’è un grandissimo lavoro dietro questo film che è la definizione stessa di convenzionale e prevedibile ma è anche portato con una grazia e un mestiere invidiabili. Anche quando esagera nelle spiegazioni, quando si dilunga un po’ troppo e finisce per essere didascalico, c’è la pasta della tradizione migliore del cinema americano: pensato per tutti e pieno di cose per pochi.