Aïcha, la recensione: quando un cartello iniziale rende un film sconvolgente

C'è un cartello all'inizio di Aïcha che segna la chiave di lettura per tutto il film. È la cosa più bella dell'opera di Mehdi Barsaoui, ma è anche un inganno

Condividi

All’inizio di Aïcha si dice che la storia è ispirata ad un fatto di cronaca realmente avvenuto dopo la Rivoluzione dei Gelsomini terminata in Tunisia nel 2011. Quello che viene raccontato è un pretesto per descrivere la condizione femminile in un paese separato nettamente tra le zone in cui la rivoluzione non sembra essere ancora arrivata, in termini di occasioni per i giovani, e altre come le grandi città in cui il progresso è solo una maschera di una corruzione profonda. Però per colpa di quel cartello iniziale ci si interroga per tutto il film su quanto l’ispirazione sia preponderante rispetto alla storia vera. Perché ciò che accade dentro Aïcha è così pazzesco che non ci si crede e, in parte, si fa bene.

Aya è una ragazza di Tozeur, lavora come donna delle pulizie in un hotel e ha una relazione segreta con il direttore. I suoi genitori le vogliono organizzare un matrimonio combinato. Rassegnata al suo destino la ragazza contatta un dottore per la ricostruzione dell’imene. Il giorno dopo subisce un terribile incidente stradale. Muoiono tutti tranne lei che non viene trovata dai soccorsi. Decide così di sfruttare il suo apparente decesso per prendere una nuova identità, trasferirsi a Tunisi e ricominciare. 

Una materia narrativa potentissima che il bravo Mehdi Barsaoui (già regista di Un figlio) gestisce inizialmente bene. Dice tantissimo con poco: in Tunisia le donne devono “morire” per poter ricominciare. Il niqāb cela l’identità, ma è anche un modo che ha Aya di essere presente senza essere vista. Tra le due città vive poi il contrasto negli usi e nei costumi, nelle persone che incontra, nello sguardo che ha sulle altre donne vestite con abiti da discoteca.

Fino a qui Aïcha è incredibile, da lì a poco diventerà poco credibile. Perché tutto quello che segue è un turbinio di colpi di scena che derivano dalla somma di altre storie vere capitate ad altre donne ma che, sulla stessa protagonista, risultano eccessive. Per ammissione del regista stesso, di veramente accaduto c'è il primo grande colpo di scena di una donna che si finge morta, ed è quello che accade dopo venti minuti, quando appare il titolo del film a schermo. Il resto è finzione costruita per arrivare alla seconda trama, anche questa vera, ma appartenente ad un altro fatto di cronaca. Un processo contro dei poliziotti corrotti.

È un caso quello di Aïcha, purtroppo non raro, di un regista che ha così tanto da dire che sente il bisogno di comprimere tutto in un’unico lungometraggio. La materia trattata richiedeva invece lo spazio di due film per potersi svolgere nel migliore dei modi. Quando Aïcha si concentra sul tema della corruzione delle istituzioni, diventando un thriller tra violenza, sfruttamento delle donne e senso di giustizia, perde infatti la tensione che invece vorrebbe costruire.

Basta una potente sequenza di incontro tra la protagonista e i suoi cari, un particolare gesto ripreso dalla giusta distanza a fare riemergere tutto il cuore che avrebbe potuto rendere speciale questa storia dalle premesse potenti su cui la finzione non doveva aggiungere molto.

Continua a leggere su BadTaste