Ahed's Knee, la recensione | Cannes 74

L'obiettivo è Israele e la sua censura. In primo piano in Ahed's Knee però c'è sempre lui, il regista e il suo tormento

Critico e giornalista cinematografico


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Ahed's Knee, la recensione

Ci sono tanti fattori che lavorano dietro Ahed’s Knee, il primo dei quali è la situazione in Israele per come la percepisce e la vive Nadav Lapid, il secondo è il fatto che il suo film precedente Synonyms, ha vinto il festival di Berlino. Non è infrequente infatti che dopo un film di particolare successo i cineasti guardino di colpo la propria vita e il proprio lavoro nel successivo e così qui la storia è quella di un regista che cerca di fare un film. Vediamo i provini e lo seguiamo mentre va a presentare il suo film precedente in una location desertica.

Il montaggio è nervosissimo, le inquadrature anche di più e c’è un lavoro meticoloso sul sound design per assordare e confondere i rumori di una scena in un’altra. Come fosse un film sulla droga, come fosse la storia di una persona che non sta bene, come fosse un’operazione underground, Ahed’s Knee fa di tutto per essere “storto”, sbagliato e ribelle. Non vuole piacere.

Ci vorrà un bel po’ per capire come questa messa in scena venga messa a frutto. Bloccato in questa manifestazione sponsorizzata dallo stato in un piccolo centro circondato dal deserto, il regista frequenta l’organizzatrice, c’è un po’ di chimica, molti dialoghi. Nulla accade, almeno fino a che non arriva la presentazione del film, quando gli viene chiesto di completare un modulo in cui indicare i vari argomenti “di cui parlerà”. Glielo propone l’organizzatrice stessa, manager di una biblioteca e centro culturale, lo fa in buona fede, con un fare molto innocuo e pieno di ammirazione per lui. Non ci vuole molto a capire che tutto questo nervosismo di Ahed’s Knee, questa tensione creata in una situazione apparentemente tranquilla, è lì per mostrare uno stato oppressivo e invisibile.

È realmente accaduto a Lapid di dover compilare un simile documento e questo ha stimolato un film in cui da quell’evento tutto precipita fino alla violenza. Ci sarà uno sfogo durissimo contro Israele, ripreso con enfasi e fondato proprio sulla rabbia e il rancore, ci saranno minacce, reazioni violente della folla durante un discorso di presentazione ovviamente duro e senza sconti e anche una registrazione di una conversazione compromettente usata come arma. Tutto, dalla disperazione di chi è stato registrato, fino alle reazioni della folla fanno pensare che i personaggi vivano in uno stato dittatoriale, che il timore di cosa accada ai dissidenti è grande quanto la rabbia della folla per chi è critico (molto critico) con il proprio paese.

Nonostante i temi siano universali e la condizione di percepita oppressione comune a molti luoghi del mondo, lo stesso Lapid riesce a far sembrare tutto ombelicale. Questo manifesto contro l’atteggiamento di Israele è così narcisistico, innamorato della propria alterità e del proprio ribellismo che la causa, le ragioni e l’impeto di protesta sembrano sempre in secondo piano, subalterni al posizionamento del regista stesso come uomo sofferente, intellettuale che con una fatica indicibile ha scelto (addirittura!) di non amare la propria nazione. La cosa insopportabile è che il film chiede di empatizzare con lui e la sua rabbia, non con la visione che presenta del suo paese.

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