Agente speciale 117 al servizio della Repubblica - Missione Rio, la recensione

Invece che prendere in giro l'inadeguatezza ai posti questa volta la Missione Rio prende in giro l'inadeguatezza di OSS 117 al proprio tempo

Critico e giornalista cinematografico


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Agente speciale 117 al servizio della Repubblica - Missione Rio, la recensione

Stavolta non è tanto il luogo ma l’anno. La missione Cairo, la prima dell’agente OSS 117, era stata molto fondata sul posto, sulle ironie che potevano uscire da un uomo bianco, conservatore e maschilista degli anni ‘50 che si muove in uno scenario nordafricano e musulmano. Ora invece, nella Missione Rio, le ironie sono tutte su quel che succede ad un uomo bianco, conservatore e maschilista negli anni in cui tutto stava cambiando. Che poi le avventure si svolgano a Rio importa relativamente, è un setting come un altro. E l’apertura è formidabile: una sparatoria che dice tutto in cui non solo l’eroe rimanendo impalato non viene mai preso ma in cui muoiono tutte le ragazze intorno a lui, rimanendo comunque un suo successo.

Ancora più che nel precedente qui Hazanavicius e Dujardin mettono a punto la distruzione di un modello maschile e tramite lui di un genere, cioè quel tipo di spy movie d’epoca (quelli di 007 per quanto i film originali, e seri, sull’agente OSS 117 vengano prima) in cui equilibri di genere e di tolleranza ad oggi ci appaiono sbilanciati e impossibili. Stavolta l’agente viene mandato in Brasile, di nuovo incontrerà una donna (un’agente israeliana ancora più tosta e emancipata di Berenice Bejo nel capitolo precedente), in più ci sarà un’esilarante backstory con un amico sulla spiaggia che strizza l’occhio al bromance, apparentemente negando tutto il machismo ostentato. Tutto ovviamente per il solito grande intrigo che è un modo per mettere l’agente in situazioni tipiche (la pioggia di pallottole da cui si ripara goffamente senza comunque essere preso è eccezionale).

Non solo le idee di parodia di Hazanavicius sono sempre fresche, come se non avesse mai visto Mel Brooks e quindi potesse inventare in libertà senza rifarsi a nessuno, non solo Jean Dujardin continua ad essere un asset preziosissimo, capace da solo di creare umorismo anche solo con una posizione del corpo là dove non ci sarebbe, ma è ancora più concreta quella capacità eccezionale di fare satira del cinema. Come dimostrerà poi con Il mio Goddard, questo regista con i suoi film demolisce gli altri, non fa parodie innocue ma parodie affilate, ha opinioni forti e non esita a metterle in immagini. E addirittura nel sequel del primo film dedicato ad OSS 117 non ha nessun bisogno di ricalcare i passaggi del primo. Nega la regola aurea per la quale un sequel è la riproposizione di tutto quel che aveva funzionato del precedente, solo più in grande, e inventa strutture, funzionamenti e dinamiche diverse per raccontare un aspetto diverso della stessa idea.

La maniera in cui in Missione Rio fa deridere gli hippie dai suoi personaggi, facendogli affermare che il mondo va benissimo così com’è, non solo è divertente ma racconta bene come dal punto di vista di quegli uomini davvero il mondo fosse perfetto, fatto a misura loro e delle loro esigenze. L’agente OSS 117 a differenza di un qualsiasi Austin Powers o di Clouseau, non è solo cialtrone ma perfettamente integrato in un mondo che funziona come lui e lo asseconda in tutte le maniere confermandogli che fa bene ad essere com’è.

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