Agente speciale 117 al servizio della Repubblica - Missione Rio, la recensione
Invece che prendere in giro l'inadeguatezza ai posti questa volta la Missione Rio prende in giro l'inadeguatezza di OSS 117 al proprio tempo
Stavolta non è tanto il luogo ma l’anno. La missione Cairo, la prima dell’agente OSS 117, era stata molto fondata sul posto, sulle ironie che potevano uscire da un uomo bianco, conservatore e maschilista degli anni ‘50 che si muove in uno scenario nordafricano e musulmano. Ora invece, nella Missione Rio, le ironie sono tutte su quel che succede ad un uomo bianco, conservatore e maschilista negli anni in cui tutto stava cambiando. Che poi le avventure si svolgano a Rio importa relativamente, è un setting come un altro. E l’apertura è formidabile: una sparatoria che dice tutto in cui non solo l’eroe rimanendo impalato non viene mai preso ma in cui muoiono tutte le ragazze intorno a lui, rimanendo comunque un suo successo.
Non solo le idee di parodia di Hazanavicius sono sempre fresche, come se non avesse mai visto Mel Brooks e quindi potesse inventare in libertà senza rifarsi a nessuno, non solo Jean Dujardin continua ad essere un asset preziosissimo, capace da solo di creare umorismo anche solo con una posizione del corpo là dove non ci sarebbe, ma è ancora più concreta quella capacità eccezionale di fare satira del cinema. Come dimostrerà poi con Il mio Goddard, questo regista con i suoi film demolisce gli altri, non fa parodie innocue ma parodie affilate, ha opinioni forti e non esita a metterle in immagini. E addirittura nel sequel del primo film dedicato ad OSS 117 non ha nessun bisogno di ricalcare i passaggi del primo. Nega la regola aurea per la quale un sequel è la riproposizione di tutto quel che aveva funzionato del precedente, solo più in grande, e inventa strutture, funzionamenti e dinamiche diverse per raccontare un aspetto diverso della stessa idea.