After Work, la recensione

After Work di Erik Gandini è un’efficace e interlocutoria esplorazione filosofica sul lavoro attraverso quattro prospettiva opposte

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Per parlare del futuro di un mondo in cui il lavoro pesante è stato sostituito da quello manuale, Erik Gandini finisce inevitabilmente per parlare del presente. After Work si articola su quattro stati che portano quattro testimonianze radicalmente diverse della cultura del lavoro. C’è il workaholism statunitense in contrasto con l’inquietudine italiana in cui i giovani NEET rifiutano qualsiasi attività sia produttiva che di studio. A fare da contrappunto di questo scenario c’è la figura di un’ereditiera che vive con libertà ogni giorno, improvvisando viaggi e dedicandosi agli hobby.

Ben più interessanti sono i paradossi del Kuwait e della Corea del Sud. Nel primo, arricchitosi rapidamente, il diritto al lavoro è garantito dalla costituzione. Solo gli immigrati e i "wage slaves" lavorano, mentre i dipendenti pubblici non hanno nulla da fare. Devono presentarsi fisicamente in ufficio per percepire lo stipendio. Leggere libri, guardare serie tv è l’unico modo per non cadere in depressione da inattività.

All’opposto la Corea è immersa nel lavoro. Turni da 14 ore a cui i dipendenti si sottopongono volontariamente, tanto il loro impiego è parte del loro essere. Il governo ha dovuto emanare una direttiva di “PC off” per spegnere i dispositivi a una data ora. Tenta poi di spingere il tempo libero con campagne di sensibilizzazione per lavorare di meno. Da qui deriva l'immagine più potente di After Work: una giovane che parla di come il padre sia perso nel suo lavoro, mentre l’uomo è accanto a lei, al computer, concentrato sullo schermo.

Gandini lavora molto bene sulla scelta delle testimonianze per dire qualcosa di nuovo su un tema conosciuto sia sulla pelle di molti che al cinema. È interessante che la driver di Amazon sia tutto sommato contenta del suo lavoro, seppur inquietata dalle modalità di controllo. Avrebbe meritato un approfondimento. After Work è stimolante filosoficamente, più debole come provocazione. Quando si discute sull’importanza di una leadership morale, il regista va giù duro con l’intervistato. C’è invece una sorta di tenerezza nei confronti della coppia formata da un’ereditiera e da suo marito. A quest’ultimo è concesso un discorso sulla meritocrazia senza mai venir chiamato a rispondere delle sue affermazioni.

Però non è questo il suo scopo. Più che un documentario di denuncia questo è un lavoro filosofico e sociologico. Ci sono quindi molte domande le cui risposte sono delegate allo spettatore. Forse troppe, data la sua breve durata. Così After Work lascia il sapore di un antipasto di quello che potrebbe (dovrebbe) essere il dibattito sul tema. Si chiude con molto altro da dire, quasi facendo volutamente un passo indietro per lasciare molti puntini di sospensione nelle quattro prospettive che inquadra. 

Quando il cinema affronta il tema del lavoro, sia nella finzione che nel documentario, lo fa raccontando storie, soprusi, sofferenze. Poco più di quello che potrebbe fare un articolo di giornale. Paradossalmente, di questo lungometraggio basato sulla realtà, ma proiettato nel futuro, si ricorderanno di più inquadrature, situazioni, paradossi e immagini perfette per un film di fantascienza.  

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