After Life (terza stagione), la recensione
Ciò che After Life perde in coraggio dissacrante, lo guadagna in calore emotivo. La nostra recensione della stagione 3 disponibile su Netflix
Madre, io provo dolore
Nella pietà che non cede al rancore
Madre, ho imparato l’amore.
Nel verso che chiude Il Testamento di Tito, Fabrizio De André immagina il ladrone buono agonizzante osservare la morte di Gesù. Dopo aver contraddetto, uno per uno, tutti i comandamenti biblici, il criminale comprende di aver provato forse per la prima volta compassione osservando l’ingiusta punizione inflitta a un uomo innocente.
Che fosse vomitando rabbia contro amici e congiunti o interrompendo un ignaro interlocutore accorso da lui in cerca di conforto, Tony ha sempre rimarcato il suo ruolo di protagonista assoluto di After Life, riflettendo con l’onnipresenza in sceneggiatura l’egoismo - spesso involontario - che costituiva la cifra primaria del personaggio.
Una conclusione corale
In accordo con l’apertura del suo protagonista verso gli altri, anche ciò che After Life decide di mostrare cambia sensibilmente, spostando il proprio focus da Tony ai tanti comprimari che lo hanno accompagnato nella sua lunga, rabbiosa elaborazione del lutto.
Sono loro, infatti, a mostrare la rotta di un mutamento che Tony, ancora troppo legato al ricordo di Lisa, rimanda costantemente. Un fiume lento ma in continua progressione, che spinge l’intero cast ad ampliare i propri orizzonti per conseguire una maturazione tanto necessaria quanto commovente nella sua semplicità.
Ecco quindi James (Ethan Lawrence) che, affrancatosi dal giogo materno, trova in Brian (David Earl) un coinquilino bizzarro e un sincero sostenitore. C’è poi Kath (Diane Morgan) che, dopo una serie di tentativi fallimentari, sembra intravedere la possibilità di una relazione sentimentale con Pat (Joe Wilkinson), e Anne (Penelope Wilton) alleviare la sua malinconica vedovanza in compagnia di Paul (Peter Egan).
La paziente infermiera Emma (Ashley Jensen), stanca di attendere un’evoluzione romantica nel rapporto con Tony, accetta il corteggiamento di una vecchia fiamma del college; e persino un caso peculiare come quello dell’uomo degli escrementi canini (Steve Speirs) trova la sua risoluzione nel pepato confronto con la bella Rebecca (Tracy Ann Oberman).
C’è dunque una convergenza collettiva verso un finale che grida vittoria nei confronti della solitudine; solitudine che, in diverse declinazioni, costituiva il nodo emotivo dell’intero microcosmo di personaggi di After Life. Piccole evoluzioni a tinte tenui, coerenti con un racconto che, a dispetto della causticità del suo umorismo, ha sempre offerto il fianco ai buoni sentimenti.
“Sorridi, Tony!”
A una prima occhiata, sembrerebbe Tony l’unica eccezione alla regola del finale di After Life. Persa ogni possibilità con Emma, il suo destino viene quasi profetizzato dall’ultima, evocativa inquadratura della serie, che lo vede affiancato dapprima dal fantasma di Lisa, per poi restare solo in compagnia della cagnolina Brandy; tuttavia, anche quest’ultima scompare in dissolvenza, lasciando Tony completamente solo prima che anche la sua immagine vada a svanire sul verde del prato.
La solitudine di Tony è, però, solo domestica: impossibilitato ad accogliere, all’interno del proprio nido, un interesse amoroso all’altezza del confronto con Lisa, trova nella felicità altrui un palliativo alle proprie lacrime. Come aveva già detto Anne, la felicità può essere splendida anche quando è appannaggio degli altri.
In uno scambio che vede vincitori da ambo le parti, Tony consacra la sua vita al dar gioia al prossimo, trovando nell’altrui sorriso il balsamo definitivo alla propria disperazione. Probabilmente continuerà per sempre a guardare i filmati di Lisa sul proprio divano, sorseggiando un bicchiere di vino; lo farà, però, consapevole di come il proprio superpotere risieda non più nell’indifferenza, ma nell’empatia.
Ciò che la serie perde in coraggio dissacrante, lo guadagna in calore emotivo; il palato di alcuni potrebbe non gradire la svolta tenera di After Life, ma nella sua conclusione agrodolce ci piace vedere la risposta affettuosa al cinismo del mondo contingente; un’oasi mite ed eterna, in cui il cambiamento è sempre in positivo e l’umorismo va a braccetto con la commozione del cuore.
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