After Life: la recensione

Le nostre impressioni su After Life, nuovo progetto di Ricky Gervais disponibile su Netflix

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Il Ricky Gervais di After Life non ha il cinismo di The Office, né il politicamente scorretto dei suoi stand-up special. È invece molto più affine a quello di Derek, il suo ultimo progetto per la televisione, che raccontava una storia ambientata all'interno di una casa di riposo. Nella scrittura dei sei episodi di After Life ritroviamo quella visione alta e consolatoria dell'esistenza, la linearità nell'intreccio, la ricompensa semplice per lo spettatore, la parabola prevedibile e dickensiana, che gioca sul fatto di saper piacere. Vero e proprio one man show di Gervais, che dirige, produce, scrive e interpreta il protagonista assoluto del progetto, After Life è una serie che funziona meglio quando gioca sul terreno della dark comedy, mentre spesso scivola sull'artificiosità del dramma.

Tony – non serve specificare chi lo interpreta – è un giornalista che lavora in una piccola cittadina, e non riesce più ad andare avanti dopo la morte della moglie. Accarezza, almeno a parole, l'idea del suicidio, si piange addosso, rovina l'esistenza a tutte le persone che lo circondano. Non avendo più nulla da perdere, decide di trasformarsi nella versione più cinica e odiosa di se stesso. Fastidioso a lavoro, recluso in casa, trascorre le sue giornate alternando l'accudimento del cane, la visione ripetuta e ossessiva di filmati della moglie, le visite al padre in casa di riposo. Lo circondano una serie di personaggi che in qualche modo sono ognuno il riflesso di una parte del suo dolore, e che cercano di tirarlo su di morale.

Alcuni mesi fa Sorry For Your Loss, serie originale di Facebook Watch, ragionava sull'elaborazione del lutto scavando con ferocia e senza indulgenza nella vita della protagonista. Ne traeva un avvilente senso del quotidiano che strideva con l'orrore personale che il personaggio di Elizabeth Olsen stava vivendo, e dal quel contrasto riusciva a far emergere le proprie riflessioni. After Life è di tutt'altra pasta. Non cerca il realismo fastidioso delle situazioni, lavora solo per idealizzazioni generiche di personaggi e momenti. Ogni figura che Tony incontra sulla propria strada è un'emanazione del proprio dolore, e lo è nel senso più egocentrico del termine. Ogni personaggio, che sia una prostituta, un drogato, una signora che va a trovare il marito al cimitero, ognuno dei colleghi, esiste in funzione della rappresentazione ora scontrosa ora pietosa di Tony.

Il protagonista si muove in un mondo semplice, scritto in funzione del racconto del personaggio. Un personaggio che lavora – ma non lo vedremo quasi mai lavorare – per un giornale gratuito, ma ha una bella casa con garage, va dallo psicoterapeuta, e non ha altra preoccupazione nella propria vita se non quella di rimuginare sul lutto. Come se tutto il mondo si arrestasse in attesa di un personaggio che deve rimettere i pezzi insieme, con la propria calma.

E, nonostante tutto il cinismo e l'antipatia di cui dovrebbe caricarsi il personaggio, la serie non spinge sul pedale del biasimo nei confronti del protagonista. C'è un'indulgenza di fondo verso la storia e i suoi personaggi, che potremo inquadrare con una sola occhiata, e che torneranno ciclicamente per ripetere le medesime considerazioni a Tony, come i fantasmi che mostrano la strada a Scrooge. C'è dolore, malattia, lutto, violenza, tossicodipendenza, ma su tutto cala una patina rassicurante che rende digeribile qualunque scenario.

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