After Earth, la recensione
Will Smith continua a cercare di spingere dentro l'industria del cinema il figlio Jaden, stavolta però dando incidentalmente il soggetto giusto al regista giusto...
M. Night Shyamalan è forse uno dei più grandi talenti sprecati dell'industria cinematografica. Emerso alla grande con due film sorprendenti e animati da una passione per il cinema spielberghiano migliore, come Il sesto senso e Unbreakable, il regista di origini indiane si è poi perso per strada, finendo preda di una scrittura (la propria) che affossa i film dietro metafore insistite, risvolti pietosi, dialoghi inconsistenti e un continuo ripresentarsi di semplicismi in grado di fiaccare anche le idee grandiose di regia che continuano a puntellare, pure negli esempi peggiori, le sue produzioni. After Earth è il primo film da anni in cui questi danni sono limitati, in cui Shyamalan al netto di diverse concessioni alla sua scrittura infelice si concentra molto di più sull'azione che sul dialogo, ovvero su ciò che accade più che su ciò che si dice.
Qui su Badtaste siamo ben consci che il discorso sulla paura, in un film il cui soggetto viene dallo stesso Smith, non è certo esente da pesanti riferimenti a Scientology, tuttavia è anche indubbio che nelle mani di Shyamalan questa materia diventi un modo coinvolgente di raccontare qualcosa di molto semplice.
Il ragazzo deve andare da A a B, da un punto all'altro di una zona pericolosa, deve affrontare mille insidie ma soprattutto le proprie paure interiori e il modo in cui Shyamalan le proietta all'esterno è magistrale. Ci sono serpenti che richiamano la fobia del buio, ci sono branchi di scimmie che richiamano il terrore di non essere accettato e una straordinaria aquila (che peccato per la CG così povera!) che lo insegue dall'alto come lo spettro delle proprie colpe.
Il tutto condito con quelle trovate di regia e quell'abilità che non si può non riconoscere a chi riesce quasi a ricordare il Solaris di Tarkovsky con un bacio di risveglio improvviso da parte di un'allucinazione.