Adagio, la recensione | Festival di Venezia

Cruciale per la filmografia di Sollima, Adagio è il poliziesco italiano per definizione, cinico, disilluso e in rapporto con passato e futuro

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Adagio, il film di Stefano Sollima in concorso al Festival di Venezia

Incendi, black out e un senso fortissimo di fine di tutto. A Roma non c’è futuro e subito vediamo un ragazzo che si è messo nei guai, come in un film di fantascienza distopico. Deve infilarsi a una festa privata di un politico e filmarlo mentre ha rapporti con dei ragazzi per poi riportare tutto a chi lo ricatta. Si accorge però di essere lui stesso inquadrato, che la sua faccia sarà ritratta in questa festa, si spaventa e scappa. Con i filmati in questione in tasca. Parte una caccia da parte di questi soggetti evidentemente molto pericolosi a lui, che vive con un padre mezzo demente ma che ha ancora una persona a cui rivolgersi perché lo aiuti, un uomo che una volta era parte del crimine. Tutto questo riporta a galla vecchie e nuove realtà di Roma intorno al ragazzo, in quelli che sembrano gli ultimi giorni dell’umanità ma forse sono solo gli ultimi di questi personaggi.

Come nei grandi polizieschi moderni anche in Adagio il vero protagonista è il senso del tempo che è ormai passato per tutti. Quattro personaggi chiave sono quattro modelli di paternità diversi in un mondo scenografato con personalità invidiabile da Paki Meduri tra realismo e fumetto underground. Sono generazioni marce che continuano a vivere secondo i loro codici, anche se è cambiato tutto. Che poi è il segreto del romanticismo poliziesco. Le uniche regole da seguire sono i codici che hanno formato e rovinato i rapporti tra tre relitti di un’altra era (Favino, Servillo e un eccezionale Mastandrea, tra i migliori momenti della sua carriera anche se compare per poco) e più moderni che regolano la vita del quarto (un Adriano Giannini titanico, il vero protagonista che regge tutto il film e lo aiuta ad avere il ritmo che ha).

Inizialmente sembra facile opporre buoni e cattivi in questo racconto ma a rendere tutto complicato ci pensa Sollima. Sia con i toni della messa in scena che con la sceneggiatura scritta con Stefano Bises, affianca questi personaggi cattivi e un po’ meno cattivi, facendo molta attenzione ogni volta che uno ci sembra mostrare un lato positivo, ad affiancare una scena in cui dà il peggio di sé e viceversa. I problemi semmai il film li mostra quando si ferma per affrontare la parte tenera della storia, confermando come Sollima viva soprattutto in movimento e tutto quello che faccia riesce meglio se lo fa in azione. Ma al netto di tutte le possibili obiezioni e notazioni è impensabile non portare in palmo di mano un film così. È impensabile davvero riflettere e parlare del cinema italiano non mettendo un film come Adagio nel gruppo del cinema che fa da esempio. Il resto è follia.

Questo è grande cinema criminale, così cinico e disilluso da trovare subito, dalla seconda scena, da quando Adriano Giannini cucina a torso nudo con i figli (che presenza!) occasionalmente andando a minacciare in balcone, la strada del cinema umano. E ci riesce creando un contrasto potentissimo tra il senso di futilità di una guerra senza parti in cui ognuno si muove per denaro e l’importanza che da un certo punto in poi invece questa assume per i personaggi, diventando una tensione verso i sentimenti di un tempo passato e morto che i tre relitti criminali sotto sotto pensano che in un modo o nell’altro possa ancora tornare per loro. E questa loro speranza di avere ancora un po’ di tempo per un’ultima azione, quando noi abbiamo capito che non è così e chi si oppone a loro invece si danno ancora pensando di poter avere un futuro con i figli, è davvero tutto. Che poi alla fine chiuda un immenso cerchio interno alla carriera di Sollima, partito con Romanzo Criminale, è solo la ciliegina.

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