Ada, la recensione
La rivelazione di una regista pazzesca, in un film in cui il controllo sull'immagine è così millimetrico che fa di noi quel che vuole
La recensione di Ada, in uscita nei cinema il 14 luglio
Tuttavia nulla si svolge come questa sinossi potrebbe far pensare. La condizione di tutti la scopriamo molto gradualmente, di dettaglio in dettaglio, passando dall’impressione delle cose come appaiono dall’esterno alla verità di come stanno, tutto per comprendere la fatica e la difficoltà di Ada stessa nell’andare via. Questa non è infatti la storia di una ribelle che vuole fuggire ma di una persona tenuta con forza assieme alla famiglia che tuttavia è essa stessa combattuta tra desiderio e dovere, istinto e paura. Il film insomma è scritto benissimo (ma del resto uno degli sceneggiatori ha curato la parte russa dei dialoghi di Scompartimento n.6) ed è diretto ancora meglio fin dalla prima inquadratura, una bomba. Subito veniamo colpiti dalla recitazione di Milana Aguzarova, la protagonista, empatica, desiderabile e fragile ma cresciuta in un luogo in cui non è concesso esserlo. Tutto in un paio di pose. Per tutto il resto del film brucerà di desiderio, ci pare di leggerglielo addosso nonostante lo voglia nascondere ma in realtà è lei (Aguzarova) che riesce a rendere sia una volontà che l’ingenuità di nasconderla male, in modo che sia evidente a tutti.
Questa storia di personaggi che stanno male alla sola idea di lasciarsi e che scopriamo avere traumi legati ai conflitti (quando compare un pannolone è davvero l’ultima cosa che penseremmo), rilascia così graduale di informazioni da tenere vivissima l’attenzione e dare ad ogni scena una presa ineludibile. Su tutto però vince il camerawork di Kira Kovalenko, vicina ai personaggi con una macchina a mano in modi a cui non siamo abituati. Non è il solito stile ma un’impronta e un modo di adottare questa tecnica personale: non troppo vicino né troppo lontano. Ci sono registi che sanno sempre da che punto inquadrare una scena, Kovalenko sa sempre a che distanza stare con la sua macchina a mano, ha un senso istintivo della presenza nella scena. E di certo in tutto questo gioca un gran ruolo Pavel Fomintsev, la cui fotografia ha il culto della minuzia e del dettaglio, dotato di un controllo millimetrico su spazi, colori e composizione, un coautore del film a tutti gli effetti per come il suo lavoro marci assieme al film verso il racconto di un mondo gretto, infame e brutto eppure anche caldo, familiare e intimo, sul quale rilasciare la presa è necessario ma anche doloroso.