Ada, la recensione

La rivelazione di una regista pazzesca, in un film in cui il controllo sull'immagine è così millimetrico che fa di noi quel che vuole

Critico e giornalista cinematografico


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Ada

La recensione di Ada, in uscita nei cinema il 14 luglio

Ada è il secondo film di Kira Kovalenko ma sembra il decimo! Questa regista russa gira con una precisione nella capacità di raggiungere esattamente l’immagine, il risultato e la recitazione che le servono (anche dai non professionisti) che fanno impressione. Il film ha vinto Un Certain Regard nel 2021 ed è frutto del laboratorio registico di Alexandr Sokurov (da lì esce Kovalenko), cosa che non stupisce visto il senso degli spazi e degli ambienti tradizionale del cinema russo di cui Sokurov è stato il più grande interprete digitale. La storia è quella di una ragazza nell’Ossezia del nord (regione della Russia vicina al confine georgiano e alla Cecenia) che vive con il padre e il fratello, stretta da una morsa più o meno affettuosa, da cui non può scappare, almeno fino a che non arriva il fratello maggiore, tornato dalla città che prova a portarla via. Ma anche lui non è meno ambivalente (“Hai lo stesso odore di nostro padre” gli dirà lei).

Tuttavia nulla si svolge come questa sinossi potrebbe far pensare. La condizione di tutti la scopriamo molto gradualmente, di dettaglio in dettaglio, passando dall’impressione delle cose come appaiono dall’esterno alla verità di come stanno, tutto per comprendere la fatica e la difficoltà di Ada stessa nell’andare via. Questa non è infatti la storia di una ribelle che vuole fuggire ma di una persona tenuta con forza assieme alla famiglia che tuttavia è essa stessa combattuta tra desiderio e dovere, istinto e paura. Il film insomma è scritto benissimo (ma del resto uno degli sceneggiatori ha curato la parte russa dei dialoghi di Scompartimento n.6) ed è diretto ancora meglio fin dalla prima inquadratura, una bomba. Subito veniamo colpiti dalla recitazione di Milana Aguzarova, la protagonista, empatica, desiderabile e fragile ma cresciuta in un luogo in cui non è concesso esserlo. Tutto in un paio di pose. Per tutto il resto del film brucerà di desiderio, ci pare di leggerglielo addosso nonostante lo voglia nascondere ma in realtà è lei (Aguzarova) che riesce a rendere sia una volontà che l’ingenuità di nasconderla male, in modo che sia evidente a tutti.

È un esempio che racconta come in Ada (che ha un titolo originale ancora più bello, Unclenching The Fists, rilasciando i pugni) ci siano una cura e un mestiere registico elettrizzanti. Luci e colori caratterizzano le scene e al tempo stesso forniscono livelli di lettura, in certi momenti (i migliori) trasformano il realismo di facciata in pura astrazione, come durante un viaggio in macchina che passa per un tunnel in cui la luce si fa rossa, o come in un momento tra maschi vicino ad uno specchio d’acqua e poi dentro di esso, in cui per un attimo cambiano anche tempi e soundscape e sembra di essere davvero in una dimensione astratta in cui ciò che avviene non parla di fatti ma di sensazioni. Che momento quando Ada compare vestita in acqua e di colpo sembra di sentire la tensione tra corpi dei film del giovane Serebrennikov!

Questa storia di personaggi che stanno male alla sola idea di lasciarsi e che scopriamo avere traumi legati ai conflitti (quando compare un pannolone è davvero l’ultima cosa che penseremmo), rilascia così graduale di informazioni da tenere vivissima l’attenzione e dare ad ogni scena una presa ineludibile. Su tutto però vince il camerawork di Kira Kovalenko, vicina ai personaggi con una macchina a mano in modi a cui non siamo abituati. Non è il solito stile ma un’impronta e un modo di adottare questa tecnica personale: non troppo vicino né troppo lontano. Ci sono registi che sanno sempre da che punto inquadrare una scena, Kovalenko sa sempre a che distanza stare con la sua macchina a mano, ha un senso istintivo della presenza nella scena. E di certo in tutto questo gioca un gran ruolo Pavel Fomintsev, la cui fotografia ha il culto della minuzia e del dettaglio, dotato di un controllo millimetrico su spazi, colori e composizione, un coautore del film a tutti gli effetti per come il suo lavoro marci assieme al film verso il racconto di un mondo gretto, infame e brutto eppure anche caldo, familiare e intimo, sul quale rilasciare la presa è necessario ma anche doloroso.

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