Ad Astra, la recensione | Venezia 76
Il film più ambizioso di James Gray è il meno a fuoco, Ad Astra non riesce ad essere nè blockbuster nè cinema d'autore
Questa in soldoni la premessa che muove il film e mette questo personaggio strano, inusuale e distante da tutto, al centro di un’avventura. E davvero Ad Astra, nonostante il suo tono compassato, ha la successione di eventi di un’avventura. Il suo protagonista vede tutto e segue tutto con una strana forma di distacco e con una calma impressionante che si riflette nella messa in scena, calma come lui anche quando accade di tutto. Tuttavia ci sono assalti e inseguimenti da western, ci sono creature mortali nascoste come nell’horror e mezzi alla deriva e in balia degli elementi come nell’avventura pura.
Ad Astra ha infatti la mirabolante perizia tecnica e tecnologica di Gravity unita alla luce e ai colori iperrealisti di Interstellar nonchè la sua visione dello spazio. James Gray li usa per raccontare i confini della nostra sanità mentale. Il limite dello spazio come limite dell’uomo che più viaggia nell’universo più impazzisce. Così per la prima volta in questi anni la voglia di esplorare, conoscere e scoprire è un’ossessione suicida e negativa (La città perduta pure girava intorno a questa idea).
Né carne né pesce, Ad Astra finisce per essere un polpettone pieno di domande retoriche che verso la fine fatica anche a mettere in fila gli eventi più semplici chiudendo la propria parabola.