A.C.A.B. (All Cops Are Bastards), la recensione

Doveva essere la traduzione cinematografica di quelle idee e quella visione portate avanti con la serie Romanzo Criminale e così è stato...

Critico e giornalista cinematografico


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Il cinema italiano degli ultimi decenni difficilmente riesce ad essere davvero duro e spietato e quando ci prova solitamente è ancora peggio. A.C.A.B. scarta la violenza fisica (paradossalmente non ce n'è molta) e va subito al cuore della questione, la violenza psicologica, in questo centrando già a livello di intenti l'obiettivo. Quanto al risultato la prima scena dice tutto: Pierfrancesco Favino, attore tra i più lanciati del momento, protagonista di film e fiction, volto riconoscibile per eccellenza e l'uomo con cui il pubblico sa che si immedesimerà già prima di entrare in sala, insegue un ragazzo extracomunitario (che ci appare giovane e secco), dopo un incidente in cui è rimasto coinvolto, lo prende, lo ammanetta e quando la collutazione è finita gli sferra il pugno più sfacciato, superfluo e doloroso che il cinema italiano ci abbia proposto negli ultimi 20 anni. Una botta allo stomaco che ti dice subito quello che il film affermerà con forza per tutta la sua durata: c'è poco da immedesimarsi, qui nessuno ha ragione.

La storia, tratta dall'omonimo libro di Carlo Bonino, affronta la vita e le opere di 4 poliziotti del reparto mobile che ci tengono a farsi chiamare celerini, hanno i ritratti del Duce in casa e non sopportano la presenza di extracomunitari tanto quanto i teppisti che picchiano allo stadio. Subiscono e provocano violenza fuori e dentro le regole, autorizzati e non, con divisa e senza. Eppure non c'è un momento in cui queste figure altamente discutibili non siano portatrici di motivazioni, istinti e di un'umanità condivisibili da ogni spettatore. Grande merito alla sceneggiatura e al team di attori che va dal buon Nigro, all'incazzato Favino fino alla perfezione, il volto duro, pieno di segni e dalle sopracciglia violente di Marco Giallini.

A Daniele Cesarano e Stefano Sollima (rispettivamente già sceneggiatore e regista della serie Romanzo Criminale) interessa il rapporto tra violenza e odio nella società moderna, come tutti si riuniscano in tribù (i "colleghi" della polizia, gli ultrà, gli extracomunitari, gli estremisti di destra) per addossare le colpe della propria infelicità sull'oggetto della loro violenza. Il primo cerca di arrivarci scrivendo un film in cui vediamo solo le ragioni dei poliziotti ma capiamo anche quelle delle vittime, il secondo applicando con successo al film le idee vincenti della serie Romanzo Criminale (su tutte una colonna sonora particolare, per il nostro cinema, e perfettamente integrata con storia e immagini).

Con il più classico degli stratagemmi (l'arrivo di un nuovo elemento nella squadra) il film si mette dal punto di vista meno raccontato e più scomodo, quello di chi gli sgomberi li deve eseguire anche se non è daccordo e che le botte deve prenderle prima di darle, cercando di capire non tanto le loro ragioni (nel film ne hanno molto poche) ma le sensazioni che le provocano. ACAB guarda nello stomaco di ogni spettatore e tira fuori quello che non vorrebbe provare, facendolo manifestare ai personaggi.

Con uno scenario sociale e politico chiaro (il G8 di Genova, la Diaz, Gabriele Sandri e le elezioni di Alemanno) A.C.A.B. sceglie solo percorsi difficili e sebbene ogni tanto si prenda delle concessioni poco felici (tutta la storia della figlia del Negro o la ribellione davanti al Parlamento), in linea di massima riesce ad essere il primo esempio di cinema italiano che non tira mai indietro la gamba degli anni 2000. Non è questione di amare la violenza, ma di capire che per mostrare un fenomeno nelle sue contraddizioni è necessario mostrarne le asperità e farlo senza paura. A.C.A.B. ci riesce.

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