A Quiet Place: Giorno 1, la recensione

Puro dispositivo di tensione e paura A Quiet Place: Giorno 1 si distingue per un'inedita rassegnazione alla tragedia

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di A Quiet Place: Giorno 1, il film prequel della saga che esce in sala il 27 giugno.

Non siamo più nel postapocalittico ma nell’apocalittico, cioè nel racconto della catastrofe (si potrebbe quindi dire nel catastrofico) e A Quiet Place: Giorno 1 si adegua, cioè racconta non tanto il desiderio di sopravvivenza individuale ma le maniere attraverso le quali la razza umana cerca di arginare il disastro, risolverlo o anche solo mettergli un freno. E lo fa tirando nel mezzo della grande storia, la piccola storia di alcune persone nella folla, in particolare una donna malata di cancro e uno studente di legge che non si conoscono ma affrontano insieme quei giorni (per la cronaca sono più di uno). Dovrebbero correre a mettersi in salvo sui battelli predisposti dopo che i ponti che collegano Manhattan al resto degli Stati Uniti sono stati distrutti per arginare l’invasione, ma invece vanno in un’altra direzione. Lontano dalla salvezza.

A Quiet Place: Giorno 1 non è uno dei film migliori della stagione, per quanto il meccanismo di tensione e paura che reggeva gli altri due film ci sia, e funzioni più che discretamente anche qui, ma è uno di quelli in cui con maggiore evidenza emergono sentimenti e sensazioni del presente americano. A lungo Sarnoski (che non viene dal cinema mainstream ma da quello indipendente) sembra voler far funzionare il film come un puro dispositivo. Un canovaccio c’è (e ha le caratteristiche di superficiale originalità tipiche del cinema indipendente americano) ma è così inutile che per gran parte vediamo quasi cinema non-narrativo che assolve più che altro alle funzioni del suo genere: spaventare e mettere tensione. Quando (troppo tardi) sconfina nella creazione di personaggi, archi narrativi e una forma di purificazione molto bambinesca, è semplicemente terribile. Nelle parti in cui dovremmo conoscere meglio i personaggi il film diventa apertamente dozzinale. Meglio quando si maschera da puro dispositivo per l’elicitazione di sensazioni forti attraverso la tensione.

A stupire però è come questo prequel, nonostante viva del presupposto implicito che la razza umana poi non sia riuscita ad arginare gli alieni, nonostante crei una specie di famiglia alternativa (lui, lei e il gatto) e nonostante si chiuda con un sorriso e una sorta di catarsi personale, lo stesso è un film che afferma l’esatto contrario dei suoi simili. Scegliendo una protagonista malata di cancro sceglie anche di poter non cercare mai davvero la salvezza e si apre alla rassegnazione. Anche la spalla (Joseph Quinn), che non ha nessuna malattia, non sceglie la salvezza a tutti i costi, almeno non subito, e preferisce seguire la missione senza senso di Lupita Nyong’o (andare a cercare l’ultimo pezzo di pizza della sua pizzeria preferita), come attirato da un nichilismo che sembra impedirgli di desiderare ardentemente di salvarsi.

Da sempre uno dei cardini del catastrofico e dell’horror americani mainstream è il desiderio, nonostante tutto, di non darsi per vinti. Il cinema americano, quando racconta le apocalissi, lo fa per affermare lo spirito indefesso del suo popolo, per mettere uomini e donne a confronto con situazioni disperate così che possano ribaltarle battendosi e trovare, alla fine e contro ogni previsione, una salvezza. Il coraggio, la carità, la pietà e l’affetto sono i valori che vengono reiterati in questa maniera (c’è sempre il personaggio egoista che muore a differenza dei protagonisti pronti a sacrificarsi). A Quiet Place: Giorno 1 trova la pace dei sensi e la sublimazione di ogni inquietudine dei suoi personaggi nella rassegnazione alla morte e alla fine di tutto. Il cuore del film e ciò che anima i suoi movimenti non è più la lotta contro la tragedia che arriva, anche solo per ricostruire una forma di equilibrio come avveniva nei primi due e andare avanti nonostante tutto, ma una serena forma di accettazione che non c’è più niente da fare.

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