A Quiet Place 2, la recensione
Tutto confermato. A Quiet Place 2 ratifica le doti di grande regista di tensione di John Krasinski e rilancia il terzo film
È raro vedere un film così, uno che è talmente tanto abile nel lavorare di pura regia (cioè l’arte di utilizzare diversi elementi di messa in scena audiovisiva per raggiungere uno scopo mentre si narra una storia) da piegare tutto intorno a sé, rimetterlo ai propri comodi e nel farlo mettere a punto un’opera impeccabile a cui manca un vero cuore, e a cui non interessa averlo.
Certo è chiaro che questo sequel si disinteressa anche più del primo film ad un vero centro emotivo. È la storia dei superstiti della famiglia protagonista che cercano altri esseri umani, si spingono all’esplorazione e nel farlo i ragazzi maturano “qualcosa” (non è ben chiaro cosa ma paiono soddisfatti, contenti loro). Come se fosse un unico film la storia attacca esattamente dove il primo la chiudeva, e si chiude così abrupto da far pensare che il già confermato terzo film (uno spin-off) farà lo stesso, è insomma solo una parte di un arco più grande (forse). E se pure non lo fosse non sarà una tragedia. Tale e tanta è la quantità di voglia di far cinema, stupire, intrattenere e far lavorare il cervello dello spettatore assieme a quello del regista che avercene di film così!
Basta vedere come nella prima scena Krasinski ci faccia percepire il mondo dal punto di vista del personaggio sordo (che è una forma di educazione ad un meccanismo che tornerà più avanti) senza bisogno di usare la solita soggettiva ma procedendo per strade proprie, con inquadrature in terza persona come fosse un videogioco. E quando il personaggio esce dal centro dell’inquadratura, cioè quando non è più in quella posizione che la identifica come portatrice del punto di vista, torniamo a sentire.
Ancora: più avanti nel film sceglie di lavorare con tre scene separate montate in alternato, ce le fa seguire insieme fino a che due non si fondono in una sola e a quel punto diventa un duetto tra una parte molto rumorosa e una giocata sull’esigenza di tenere il silenzio. Il tutto usando come strumenti di transizione proprio i rumori.
E Krasinski nemmeno si bea di queste trovate, le infila una dietro all’altra senza dargli importanza, senza farne delle scene madre ma trattandole come mattoni ammassati per la costruzione del suo muro.