A passo d'uomo, la recensione

Più votato al piacere liberatorio di un percorso che alla narrazione del trauma, A passo d’uomo funziona davvero quando non si sforza di convincerci di nulla né di commuoverci, ma ci lascia respirare con il suo personaggio.

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La recensione di A passo d’uomo, al cinema dal 19 ottobre

Tratto dal libro autobiografico di Sylvain Tesson, A passo d’uomo di Denis Imbert racconta con semplicità la parabola di accettazione di un uomo dei limiti del suo “nuovo” fisico e il potere curativo dello stare nella natura. A passo d’uomo è un film volutamente modesto, che trova il suo piacere nella pura osservazione del paesaggio francese ma che, parimenti, fatica ad emozionare come vorrebbe.

Quella di Pierre (Jean Dujardin) viene infatti presentata come una storia di redenzione - narrata in prima persona - di un uomo vizioso: Pierre è uno scrittore affascinante e di successo che, da sempre, per trovare l’ispirazione si reca in montagna per fare lunghe camminate o arrampicare. Quando, tuttavia, la sua ubriachezza lo porta a precipitare da un terrazzo, Pierre rischia la paralisi, salvandosi per miracolo e uscendone con una grande cicatrice sul viso, la perdita dell’udito da un orecchio e un’immensa fatica nel trascinare il suo fisico lungo i sentieri. Sul letto d’ospedale, Pierre decide quindi che, una volta uscito, percorrerà a piedi l’intera Francia per 1302 km: un viaggio geografico e introspettivo che lo porterà ad accettare vecchi e recenti traumi.

La limitazione fisica è in A passo d’uomo l’ammonizione blanda e piuttosto retorica di un errore che porta alla possibilità di essere una persona migliore. La lettura del trauma e della “punizione” come salvifica, ripetuta lungamente, diventa presto stucchevole. Il film divide questa parte di retorica (che vediamo progressivamente nei flashback, a indagarne l’origine) quasi esattamente a metà con tutta la parte invece di mera esplorazione della natura, decisamente più appagante.

Denis Imbert non intende estetizzare largamente il paesaggio ma lo usa sempre in relazione al personaggio, al suo sguardo e al suo fisico: e così ci mostra come Pierre, nella pratica quotidiana del suo cammino, cambi il suo approccio al camminare in base alla fatica, le strategie che utilizza per non stancarsi, i momenti di difficoltà, l’ostinazione. Durante quei 1302 km la voce di Pierre ci accompagna ponendoci e ponendosi domande non solo su sé stesso, ma anche su come il paesaggio francese sia cambiato nel tempo, mostrandoci paesi ormai abbandonati, mestieri che cambiano volto. Tutta questa è la parte migliore del film, la sua immersione riflessiva (senza dare risposte) nel viaggio fisico e spirituale di Pierre.

Sul suo cammino intervengono altri personaggi (amici, famigliari), che - come nella trama - anche per senso e valenza lasciano il tempo che trovano. Più votato al piacere liberatorio di un percorso che alla narrazione del trauma, A passo d’uomo funziona davvero quando non si sforza di convincerci di nulla né di commuoverci, ma ci lascia respirare con il suo personaggio.

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