A Human Position, la recensione
Né pura sperimentazione, né puro racconto, A Human Position in fin dei conti è uno strano esperimento narrativo che tuttavia pur stuzzicando da una parte e dall’altra non soddisfa mai pienamente.
La recensione di A Human Position, su MUBI dal 30 gennaio
Più che di ricerca visiva, ad ogni modo, Anders Emblem si preoccupa di lavorare sul connubio tra immagini e atmosfere: né pura sperimentazione, né puro racconto, A Human Position in fin dei conti è uno strano esperimento narrativo (di finzione, al centro c’è una micro storia) che tuttavia pur stuzzicando da una parte e dall’altra non soddisfa mai pienamente.
Questa “deviazione” (che arriva piuttosto tardi nel film, che tra l’altro è brevissimo, forse anche troppo) permette finalmente ad Anders Emblem di sfruttare il linguaggio filmico tra immagini e storia: come la bellezza di questi piani statici, ben illuminati, ben inquadrati, ben montati, ci illude di assistere ad una vita perfetta e ad una società senza pecche, così la consapevolezza di questa deviazione dallo status quo tramite un atto di forza ci fa rendere conto che il contrasto tra immagine e realtà è ciò che A Human Position cerca di raccontarci fin dall’inizio.
Seppur questa consapevolezza arrivi tardi durante la visione, l’idea non risulta affatto male nella sua efficacia (il messaggio è piuttosto chiaro). Peccato che tutto ciò che vediamo prima risulti invece piuttosto fine a sé stesso, certamente piacevole nel suo effetto immediato ma apparentemente senza un significato: proprio come la metafora della "posizione umana", quella di stare seduti e che ha a che fare con il fatto che la fidanzata di Asta restauri sedie. Piuttosto incerta.
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