A Hero, la recensione | Cannes 74

È tornato il cinema dagli obiettivi più alti e complicati, il più sofisticato eppur digeribile dal grande pubblico, è tornato Asghar Farhadi con A Hero

Critico e giornalista cinematografico


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A Hero, la recensione | Cannes74

La verità, quella universale, oggettiva e chiara non esiste. Almeno non esiste nelle questioni degli uomini. Asghar Farhadi, per dimostrarlo, crea trame complicatissime, intrecciate e plausibili come storie reali, in cui però ci oscura dei dettagli mettendoci sullo stesso piano dei personaggi, per dimostrarci la conoscenza del mondo è un’illusione e più si indaga più si scopre che la ragione è un concetto relativo.
Chi ha visto anche solo un suo film (Una separazione, Il cliente, Tutti lo sanno) sa bene come proceda questo regista. Questa volta il punto è una borsa contenente delle monete d’oro trovata e consegnata alla proprietaria che l’ha persa. A ridarla è un uomo che è in carcere per debito, durante una giornata di libertà. Non intasca i soldi che gli servirebbero, ma anzi li ridà, la cosa lo rende un personaggio mediatico, un eroe che tutti innalzano. Almeno fino a che qualcuno non avanza l’ipotesi che sia tutta una truffa e lui, per avere il lavoro che gli hanno promesso, deve provare invece di aver detto la verità.

Come già scritto sarà un’impresa per tutti andare a fondo e dimostrare la verità delle proprie affermazioni e ogni singolo personaggio che prova ad emettere sentenze si scontra con l’impossibilità di sapere tutto. Lentamente emerge il sospetto che il concetto di verità assoluta e chiara non sia che un’illusione.

Farhadi è uno scrittore mostruoso.

Mostruoso.

Un alchimista di eventi e personaggi che ordisce trame dalla precisione ingegneristica. Ma non si ferma al copione, sa gonfiarlo con la messa in scena e farlo diventare un film vero, uno che racconta una cosa per dirne, nel frattempo, un’altra. Ci riesce curando una recitazione dettagliata e mai banale (il carattere del protagonista lo capiamo solo da come lo recita Amir Jadidi), impegnandosi moltissimo a dipingere i comprimari con attenzione (c’è un tassista che, con pochissime scene, impone un’umanità travolgente e la figlia del creditore che ci sembra di conoscere da sempre) e infine montando con attenzione gli sguardi degli altri sui protagonisti.

È così che Rahim, il protagonista, ci appare come Lamberto Maggiorani di Ladri di biciclette, in lotta per qualcosa di ordinario per tutti (la possibilità di lavorare) e sempre guardato da un figlio che ad un certo punto diventa uno strumento per aggiudicarsi i favori degli altri.
Nei film di Farhadi non c’è mai nulla di semplice, ma stavolta, per quanto non ci sia la semplicità estrema di Una separazione, l’impressione è che non gli sfugga niente e sia volato ad un livello un po’ superiore, alle prese con temi universali e particolari al tempo stesso. Ci sono problemi del mondo in cui vivono i personaggi come l’onore, le donne che non si sposano senza il consenso dell’uomo e la vergogna sociale, ma anche questioni che riguardano tutti come il raggiro, l’esigenza di lavorare per sentirsi uomo e il più alto di tutti, la verità.

Come Hitchcock, Farhadi ha la rarissima dote di gestire il pubblico come un suo pupazzo, di fargli pensare in ogni singolo istante e con ogni dettaglio più piccolo esattamente quello che vuole. Il suo obiettivo non è tanto la suspense (per quanto i suoi film siano pieni di tensione), ma il dubbio, distruggere ogni certezza e mostrare come il dubbio sia l’unica risposta sensata alla complessità inconoscibile delle realtà che viviamo. È qualcosa quasi impossibile a parole e che invece trova nel cinema la sua esaltazione.

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