A Family Affair, la recensione

Dentro una cornice che offre una (velata) satira di Hollywood, A Family Affair propone uno svolgimento convenzionale e personaggi poco incisivi

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La nostra recensione di A Family Affair, disponibile su Netflix

Il ritratto del mondo hollywoodiano che fa da cornice a A Family Affair è di gran lunga, nella sua connotazione di velata satira, l'aspetto più interessante del film. C'è un attore, Chris Cole (Zac Efron) famoso più per il suo fisico che per le doti recitative, impegnato in sequel di un franchise d'azione, che il pubblico adora ma di livello ormai scadente. A dirigere l'ultimo capitolo troviamo una regista francese, che appare un pesce fuor d'acqua, un (probabile) nome indie schiacciato dall'industria. Ci sono invece altre donne che non riescono a fare carriera, nonostante le buone idee che portano avanti. La protagonista, Zara (Joey King), ventiquattrenne assunta come assistente tuttofare di Chris con la prospettiva di diventare sua produttrice, non ha visto in due anni alcun avanzamento di carriera. Sua madre Brooke (Nicole Kidman) non è riuscita a imporsi né come scrittrice né come giornalista, così come altre sceneggiatrici amiche di Zara, che non trovano finanziatori.

Questi elementi potevano rendere A Family Affair un film stratificato, uno cioè che utilizza uno svolgimento convenzionale per portare avanti tra le righe ben più acuto discorso. Ma niente di tutto ciò accade, in quanto la cornice si rivela ben presto un pretesto. La storia inizia quando Zara decide finalmente di licenziarsi, vessata dal comportamento infantile di Chris e dalle sue assurde richieste. Giungendo a casa sua per scusarsi, quest'ultimo trova Brooke da sola: dopo aver iniziato a chiacchierare, tra i due scatta la scintilla e poco dopo una relazione, osteggiata dalla ragazza che non vede di buon occhio l'attore, di cui ben conosce l'incapacità di impegnarsi in una relazione seria e stabile.

La premessa di A Family Affair sembra avvicinarlo al recente The Idea of You, del quale però in fin dei conti condivide più che altro l'aspetto produttivo (il lancio di Zoey King come volto di Netflix come Nicholas Galitzine lo sta diventando di Prime Video). Al centro della storia non c'è tanto la relazione tra una star e una persona comune con differenza d'età (qui però meno marcata), ma Zara e il suo rapporto con Brooke. Sua è la prospettiva del racconto, sua la parabola di crescita a cui va incontro. Dalla seconda parte in poi, il film diventa così una generica storia famigliare, con una figlia che inizialmente non accetta il nuovo compagno della madre e finisce per imparare qualcosa su stessa (cosa che non accade sicuramente solo a Hollywood: il fatto che quest'ultimo sia un volto importa solo marginalmente).

Richard LaGravenese, acclamato sceneggiatore negli anni '90 (I ponty di Madison Country, La leggenda del re pescatore), passato poi dietro la macchina da presa nel decennio successivo, torna qui alla regia a dieci anni da The Last Five Years. A livello visivo, qualche idea la mette in campo, come la diversa disposizione dei personaggi nell'inquadratura a rappresentare il loro rapporto e come questo si evolve durante la storia. Le sue buone intenzioni vengono però rese vane in primis da un ricercato ricorso a celebri brani per amplificare i momenti clou, tipici dell'anonimo prodotto da piattaforma, e soprattutto da una sceneggiatura (scritta da Carrie Solomon) che, nella dimensione privata del racconto, si adagia su spunti risibili (il primo incontro tra Brooke e Chris), su triti cliché (la cena di famiglia a Natale) su pallide backstory dei protagonisti.

A avvallare questa sensazione di inconsistenza dell'operazione accorrono anche Zac Efon e Nicole Kidman, nei cui personaggi non manca un elemento meta. Brooke a un certo punto dice di essere australiana, agevolando una somiglianza con la sua interprete (con genitori della stessa provenienza) che sul grande schermo non trova più lo spazio di un tempo, così come in Chris si può vedere un riflesso di quello che (al momento) non è la carriera dell'ex star di High School Musical. Ma anche in questo caso sono meri specchietti per le allodole, spunti mai approfonditi. Se inoltre King, pur con un personaggio non certo sfaccettato, dimostra comunque una certa verve, le due star adulte offrono una performance al minimo sindacale e senza alcun trasporto, rendendo veramente difficile appassionarsi alla loro storia.

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