A Classic Horror Story, la recensione
Finalmente arriva un horror italiano che parla anche dell'horror italiano. A Classic Horror Story sa fare benissimo il suo lavoro e anche di più
Era parecchio tempo che un film italiano non faceva un discorso arrabbiato sul cinema italiano stesso. A Classic Horror Story ne ha di cose da dire e le dice principalmente con una trama e una serie di trovate che non spoileriamo di certo ma che ribaltano più volte il racconto. E mentre, da un lato, quel che pensiamo sulla storia che guardiamo viene rivoluzionato, dall’altro il film esplicitamente e implicitamente fa anche le sue considerazioni su come sia girare horror in Italia, arrivando pure a prendere di mira il pubblico. Qualcosa che nessuno fa per timore di inimicarselo. Roberto De Feo e Paolo Strippoli (il secondo all’esordio, il primo ha già girato The Nest) invece vogliono fare un horror che parli anche di horror.
Ovviamente qualcosa andrà male, il pulmino deraglia e i 5 finiscono in una landa che somiglia a quella di Midsommar, con architetture triangolari che sembrano quelle di Gretel e Hansel, luci fortissime di colori rossi come in Mandy e poi una serie di figure misteriose abbigliate in costumi folkloristici che hanno intenzioni terribili.
Il film insomma abbraccia in toto l’estetica "arty" del nuovo horror indipendente americano, quello che si fonda prima di tutto su immagini sofisticate e una fotografia audace (qui poi la color correction classica, quella orange & teal, è spinta fortissimo). Dopo 51 minuti di horror classico ben fatto arriva poi il momento di iniziare a tirare le fila e il vero film parte.
Da che sembrava di stare in una sorta di versione importata di miti e figure americane (ci sono pure gli stranieri nel pulmino), capiamo di essere in una storia profondamente italiana, con radici e paure italiane. È forse il tratto più classico di un film che classico non vuole essere, cioè quello di trovare l’orrore e il mistico nella dimensione ancestrale del meridione sperduto (di nuovo però una bella scena finale ribalterà anche questo assunto).
E come il cinema italiano che si rispetti anche questo ha una passione sconfinata per le facce che raccontano un mondo, per bambini sovrappeso e volti segnati da una vita di sole, totalmente inespressivi di natura. Là dove il cinema horror italiano è sempre timoroso di eccedere con il sangue e tira indietro la mano di fronte all’idea di sconvolgere o far arrabbiare qualcuno, questo film dimostra di non aver paura di nessuna delle due cose.
Intorno a tutto questo si muovono principalmente Francesco Russo (bravissimo in un ruolo che cambia più volte e dotato dell’intelligenza attoriale per comprendere profondamente la natura del suo personaggio) e Matilda Lutz (che dopo il già eccezionale Revenge conferma di avere nelle proprie corde più questo cinema di L’estate addosso di Muccino). I due entrano ed escono da mitologie di altri film e del cinema italiano classico (quella di una madonna con le stimmate è forse l’immagine migliore) come il film comanda, reggendo benissimo il difficile compito di rendere plausibili svolte clamorose.
Certo alla fine rimane l’interrogativo su quanto il film ammicchi a certi temi, senza poi affrontarli propriamente, o quanto invece abbia qualcosa da dire su di essi. Forse però una volta tanto un film italiano è più importante per quel che fa, come lo fa e per l’atteggiamento ben poco conciliante che mostra con il mondo intorno a sé, piuttosto che per quello che ha da dire sulle solite questioni meridionali affrontate, usurate e abusate dal resto del cinema italiano.
Disclaimer: uno dei critici di BadTaste, Francesco Alò, è tra i direttori artistici del festival di Taormina in cui è stato presentato il film A Classic Horror Story