A Chiara, la recensione | Cannes 74

Chiara incontra i protagonisti degli altri due film di Carpignano e si dimostra diversa. Così uno dei migliori registi giovani italiani si apre ad un altro cinema

Critico e giornalista cinematografico


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A Chiara, la recensione | Cannes 74

Al terzo film Jonas Carpignano sfonda nella finzione.

Non che i precedenti fossero documentari ma sia Mediterranea che A Ciambra flirtavano tantissimo con il semi documentarismo e si ponevano a metà tra un racconto artificioso e la documentazione di un ambiente vero. A Chiara, che chiude la trilogia di Gioia Tauro, invece parte con una scena che potrebbe essere uscita da Reality di Matteo Garrone, una festa di compleanno lunga e larga dove la regia non regola tutto ma sembra documentare ciò che avviene che solo in chiusura svela di essere l’attacco di una trama. A partire da quel momento sempre di più il film assume il linguaggio del cinema di finzione puro nonostante attori e luoghi abbiano i volti, i corpi e la desolazione che non appartengono ai film ma vengono dalla realtà.

A Chiara sa insomma essere piacevolmente convenzionale. Ed è una conquista, non un difetto. Una conquista che gli consente di girare il suo film più riuscito in assoluto.

Chiara è la figlia di un pesce medio della ‘ndrangheta. Non lo sa e lo scopre all’inizio del film quando una macchina esplode, il padre scompare e lei scopre trova un passaggio segreto dentro casa, un buco nel muro che conduce in un luogo scarno. La materializzazione della zona liminale, quella in cui il personaggio accede ad un altro livello di consapevolezza passando da un bel salotto ad uno squallido rifugio. Inoltre sembra che sia l’ultima della famiglia a saperlo. Tutti accettano la cosa passivamente perché è ciò che garantisce il loro buon tenore di vita. Chiara invece no.

A Carpignano, è evidente, piacciono questi preadolescenti con caratteri fortissimi e aspri con i quali è impossibile trattare, teste dure che parlano poco e agiscono con arroganza, come se non sapessero di avere gli anni che anno e pensassero di essere adulti. Gli piacciono e sa come riprenderli per raccontare cosa ci sia di così attraente in questo atteggiamento.

Come già Pio in A Ciambra anche Chiara non dà retta a nessuno, fa quello che vuole e anche quando arriva lo stato (che forzatamente sottrae i figli dei mafiosi alle proprie famiglie per portarli altrove, sotto copertura, e salvarli da un destino segnato), non sente ragioni. Deve trovare il padre e farselo dire da lui, deve vederla con i suoi occhi questa storia della mafia. Deve conoscere per capire.

Sarà tuttavia nel finale che Carpignano opera il vero salto in un altro tipo di cinema, scarta anche il coming of age e mostra di essersi mosso in un terreno suo.

Partito con una festa che pare esistere a prescindere dal film, A Chiara si chiude con pura scrittura, un dialogo in macchina pieno di doppi livelli di lettura, uno stacco di montaggio perfetto che salta in un altro tempo e addirittura un riflesso nello specchio che mostra non ciò che esiste (fino a quel punto la missione di tutto il cinema di Carpignano) ma ciò che è nella testa e nel futuro della protagonista.

Forse A Chiara non chiude solo la trilogia di Gioia Tauro (facendo incontrare alla protagonista i personaggi dei due film precedenti per dichiarare la sua alterità da loro) ma chiude proprio una parte della carriera, appena partita, di Jonas Carpignano e la apre ad un’altra fase.

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