8 Rue de L'Humanité, la recensione
Quanta differenza c'è tra 8 Rue de L'Humanité e il nostro Lockdown all'italiana? Innanzitutto è una questione di tempistiche
Non dobbiamo avere troppa vergogna di Lockdown all’italiana perché 8 Rue de l’Humanité non solo non è troppo diverso (fatti i necessari distinguo nazionali), ma non ha nemmeno la giustificazione di essere stato girato all’arrembaggio per aiutare l’industria del cinema nazionale. Il film francese sul lockdown è anch’essa una commedia da un campione di incassi (Dany Boon quello di Giù al Nord, l’originale di Benvenuti al Sud) e arriva un anno e mezzo dopo il primo lockdown a raccontare un momento storico adesso già lontano senza il beneficio della distanza, ma anzi con tutte le implacabili piccolezze e i difetti di uno sguardo instant.
Ogni famiglia del condominio che sta al numero 8 di via dell’umanità (Dio santo!) ha un suo tipo di umorismo molto spesso portato dagli interpreti stessi, di certo mai sorprendente. Se Enrico Vanzina ha il suo immaginario da commedia viennese, così Dany Boon lavora sul suo consueto affiancare gli opposti, come il ricco proprietario di appartamenti e la brava signora che gestisce il bar, l’avvocatessa spericolata e l’ipocondriaco, il vanitoso e la donna incinta. E come non c’è vera trama non c’è neppure un vero e proprio umorismo, sono gag mediocri una in fila all’altra. Di nuovo né più né meno di Lockdown all’italiana.
Cosa guardiamo a fare una storia che rimette in scena il nostro passato recente, e lo fa con la lente della comicità, se questo umorismo non è in grado di dirci niente su di noi e su quel che è accaduto?
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