50 Km all'ora, la recensione

Con un compendio di situazioni usuali e solo uno dei suoi due attori che si impegna, sembra che 50 Km all'ora non ci provi nemmeno

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di 50 Km all'ora, il nuovo film diretto da Fabio De Luigi in sala dal 4 gennaio

Un viaggio on the road nella provincia italiana, fatto con lentezza, è così abituale per il cinema italiano che esiste già un film che lo racconta: Basilicata Coast To Coast. Ma anche un viaggio di due fratelli molto diversi, che non si sentono da tempo, riuniti della morte di un padre, e con l’obiettivo di spargerne le ceneri in un punto preciso, è così abituale che lo abbiamo già fatto: Diciotto anni dopo. Fabio De Luigi ci aggiunge la regressione e la nostalgia, cioè il fatto che questi due fratelli nel viaggio si comportino come quando erano ragazzini e che lo facciano con ciclomotori e zaini invicta. Quello che semmai era lecito aspettarsi è che, a fronte di una sinossi e di alcune relazioni abbastanza abusate, ci fossero poi degli esiti o almeno uno svolgimento unici.

Invece il viaggio di Fabio De Luigi e Stefano Accorsi, fratelli separati dal ribellismo, uno rimasto al capezzale del padre poi morto e l’altro in giro per il mondo con un lavoro strano (gestione eventi su navi da crociera) portato avanti con gli auricolari bluetooth e le telefonate selvagge da manager, passa per tutte le tappe dei viaggi italiani: le sequenze musicali (in quantità spropositata), le partitelle (anche lì tantissime, anche oltre quella inevitabile a calcio), l’incontro sessuale occasionale e il tentativo di non pagare il ristorante. Questo film ricalca così tanto le solite trovate da dare l’idea che sia stato composto senza nessuna ispirazione ma aggregando sequenze di provata efficacia a partire da un film tedesco (25 Km/h).

50 Km/h è quindi un compendio di tutte queste convenzioni, dentro il quale questi due fratelli recuperano un rapporto che era completamente distrutto (essa stessa una convenzione) e in un certo senso recuperano le loro vite nel momento in cui il padre muore. Era legittimo chiedere almeno un po’ di cura ma che non ce ne sia nel dare concretezza a quest’evoluzione lo testimonia la fretta con la quale sono sbrigati i vari passaggi, a partire dal più delicato, quello iniziale. Stefano Accorsi, presentato come un bastardo cinico, di colpo torna ragazzo e molla il lavoro per rivivere come decenni prima, simpatico e gioviale. Non è un passaggio ma una cosa che accade di colpo con scarsissime motivazioni.

È quel personaggio lì, il fratello scapestrato ed egoriferito, quello centrale, perché l’altro, quello di Fabio De Luigi non è niente. Come spesso gli capita i suoi personaggi soffrono un grigiore di scrittura intenzionale e deleterio che non viene mai superato né si fa paradigma e quindi alla fine non dice niente. Invece l’altro beneficia dell’impegno sovradimensionato di Stefano Accorsi, che recita l’essere fratelli per due (De Luigi recita di rimessa), interpreta la nostalgia, il desiderio di tornare ragazzi, di vivere in quella maniera e a tratti trova quasi un senso in questa storia. Lo trova in come recita le piccole interazioni o i momenti di soddisfazione, quella liberatoria e fulminea sensazione di benessere che deriva dall’aver fatto aderire i desideri più intimi con le proprie azioni. Sono attimi fugaci di puro accorsismo in cui godere almeno di qualcosa di sensato in un film che per il resto un senso non lo trova mai, tantomeno un umorismo funzionale, e cerca più che altro il piacere della nostalgia.

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