50 e 50, la recensione
Con eguali probabilità di vivere o morire per un cancro maligno (il 50 e 50 del titolo) comincia una storia di discesa e risalita. Il massimo della ruffianeria...
Il cinema indipendente americano negli ultimi 10 anni ha subito una sterzata decisa, passando dall'essere una modalità produttiva ad un genere. La produzione è aumentata e si è standardizzata intorno a certi temi, personaggi e trame, il che ne ha anche facilitato la comprensione da parte del pubblico, con il conseguente aumento in termini di successo e di disponibilità delle star.
Quello che è successo però è che "indie" è diventato sinonimo di ruffiano, modaiolo e di un certo approccio a personaggi e narrazione che non è proprio il massimo in quanto ad audacia. E l'audacia una volta era ciò che caratterizzava le produzioni realizzate al di fuori degli studios.
50 e 50 è un po' la summa teorica di tutto questo in quanto si prefigge di catalizzare attorno ad un personaggio (già indie per carattere, tipologia e gusti) l'attenzione del pubblico mescolando il massimo delle disgrazie e il massimo dell'umorismo attraverso uno schematismo che ha dell'irritante.
Jonathan Levine, che già aveva portato la cinema il pessimo Fa la cosa sbagliata, continua ad insistere sul binario della tenerezza senza ritegno. Usa la malattia per scatenare un'empatia matematica (di quelle che arrivano per forza) e pone accanto al protagonista personaggi inconsueti, originali e divertenti per non far mai scadere il film in una tragedia autentica. Senza il coraggio di fare nulla trascina 50 e 50 per tutta la sua durata ma alla fine è chiaro che non è stato raccontato nulla. Le traversie del protagonista dovrebbero parlare di caduta e ascesa, della possibilità di cambiare vita attraverso lo specchio di un evento traumatico e invece sono solo puro pretesto per dialoghi sentimentali mascherati da attimi di commedia.