42 giorni nell'oscurità: la recensione

42 giorni nell'oscurità, tratto da una storia vera, procede in punta di piedi e senza scivoloni ma anche senza graffiare

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42 giorni nell’oscurità si racconta attraverso due scomparse. La prima è quella di Veronica Montes, la seconda è quella della sua videocamera. Le due cose vanno di pari passo mentre la serie segue le indagini di cui, sin dall’inizio, dichiara l’esito: l'omicidio della donna e madre di famiglia. Sfera privata e apparenza si incontrano e si parlano. La prima sequenza è filtrata attraverso l’occhio soggettivo del filmato amatoriale che racconta una famiglia felice. Lo stacco successivo arriva alla fine delle indagini con il ritrovamento del corpo della donna morta nella casa. Contrariamente a quanto pensato non si era mai mossa, qualcuno l’ha uccisa quella mattina di 42 giorni prima e nascosta. sotto gli occhi di tutti, proprio nel luogo dove la polizia ha cercato di meno.

C’è poi il racconto del marito, Mario Montes, pieno di buchi e di incoerenze. È pieno di possibili moventi che lo portano ad essere uno dei principali sospettati. Eppure il caso è troppo ingarbugliato per essere risolto dalla sola polizia. Il caos mediatico che scatena è l’occasione perfetta per un avvocato, da tempo senza lavoro per avere falsificato delle prove in un precedente processo, di riabilitare la sua immagine. Si schiera così da una parte della famiglia, spaccata in due dal dramma e dalle divisioni interne, quella più seguita dall'opinione pubblica e inizia una ricerca in parallelo. Più va in profondità più si ossessiona, giocandosi tutto sulla risoluzione del mistero prima degli altri.

Ispirato a una storia vera

42 giorni nell’oscurità appartiene al genere true crime. Basata sulla vera scomparsa di Viviana Haeger la serie cerca di non appassionarsi troppo alla pura cronaca, per osservare invece le reazioni delle persone coinvolte ad ogni progresso e a ogni scoperta. Recupera un aspetto umano dietro al susseguirsi di colpi e ribaltamenti. Nulla di nuovo però, né per come è messo in scena né per quello che succede. Tutto è come da copione, persino la doppiezza della famiglia, luogo idilliaco o prigione soffocante? In generale però è come se si procedesse con una sensibilità generale verso ciò che c'è di vero che non aiuta però la storia a graffiare. 

Il crimine senza colpevole è l'innesco perfetto per la serialità, perché tiene con il fiato sospeso fino alla risoluzione finale. I crimini veri, o comunque le trame ispirate a fatti realmente accaduti, non possono permettersi la mediocrità della messa in scena. Il "true" nel "crime" è infatti più difficile da gestire. Il ritmo della realtà non segue quello delle narrazioni, è generalmente molto più lineare e raramente le cose accadono con enfasi sul finale, anzi, noi facciamo esperienza delle cose in anticlimax. È difficilissimo quindi organizzare il materiale in modo che tenga incollati per sei episodi rilanciando ogni volta il mistero.

Così la sceneggiatura scombussola le cose. Rivela sin dall’inizio la fine della donna, togliendo involontariamente gran parte della suspense e indugia nel farci vedere come si sia arrivati a quella conclusione. Usa male il salto temporale, annullando la forza della prima parte. Superato questo scoglio il tutto diventa però ben più interessante quando quel punto centrale, il ritrovamento del cadavere, si incontra con il resto della narrazione. Quando si butta oltre quei primi secondi anticipati incautamente, 42 giorni nell’oscurità inizia veramente a brancolare nel buio, cioè a tenere celato quello che può succedere, a costruire il vero mistero.

Il problema è che a fronte di queste difficoltà organizzative, fatte per smuovere le acque di una struttura altrimenti eccessivamente lineare, non segue una messa in scena all’altezza. E la mediocrità, in questo caso, si traduce in una inevitabile disaffezione verso la ricerca della verità. Sacrifica la passione per salvare i personaggi, ma anch’essi non sono particolarmente memorabili, pur venendo passati praticamente ai raggi X.

L'idea migliore di 42 giorni nell'oscurità

E allora resta solo un oggetto a cui la regia si aggrappa trovando una ragione per protrarre il più possibile la vicenda: la videocamera scomparsa insieme alla donna. Un indizio chiave, non tanto per quello che contiene quanto perché ritrovarla significherebbe sbilanciare in una maniera decisiva le diverse teorie. Insomma: potrebbe risolvere il caso.

Simbolicamente però rappresenta anche il terzo polo della ricerca. È un portatore di interesse presentissimo che esprime le sue opinioni ed è parte in causa nel confondere la situazione. Da una parte c’è infatti l’accusato, che deve provare la sua innocenza. C’è poi chi fa le indagini, più gruppi in contemporanea ciascuno con i propri interessi nel risolvere il caso alla svelta, e infine ci sono i media, le videocamere appunto.

Quello che è un processo per la verità si trasforma in un processo mediatico. Non si risparmia nessun colpo facile alla morbosità della popolazione, con il fiato sospeso per i 42 giorni di ricerca, e poi alla ricerca di sangue, di un colpevole, anche a costo di distruggere la famiglia vittima.

Neanche qui si riesce a variare la solita formula. Le lamentele sono didascaliche (come il cartello esposto alla finestra delle bambine in rimprovero ai paparazzi). Ha un senso che le azioni della polizia siano piene di buchi e di negligenze. Il caso viene gestito male sin dall’inizio. Per come le azioni sono riprese sullo schermo però si stenta veramente a credere che a nessuno sia venuto il dubbio anche solo di controllare i tabulati telefonici o di setacciare bene la casa, sin da subito con i cani e con tutti i mezzi a disposizione.

Solo che questi punti oscuri vengono affrontati direttamente dai personaggi, sono cioè integrati nella storia e servono per andare avanti. Solo che mentre accadono, nei giorni caldi di ricerca, nessuno mette in dubbio la correttezza dell’operato. 42 giorni nell’oscurità fatica quindi anche a conquistare nelle procedure, nella credibilità dell'indagine che fa sentire parte attiva anche chi guarda. Invece ci sembra di essere sempre più avanti dei personaggi.

Dove vince, salvandosi oltre la sufficienza, è nella figura del padre Mario. Un uomo mite, sempre contenuto anche quando subisce il più terribile dramma. Un po’ sbadato, ma anche buono e comprensivo all’eccesso. Incapace di esprimere un’ira che chiaramente trattiene.

Un profilo perfetto di psicopatico per i media. Così bonaccione da diventare perverso agli occhi altrui. Una maschera di innocenza che le lenti delle dirette tv deformano trasformandolo nel perfetto colpevole. Lì, in quella figura, sarebbe stata ben più appassionante vedere l’oscurità: proprio quando questa, quella dell'anima di una famiglia, era sotto i riflettori.

42 giorni nell'oscurità è su Netflix ed è la prima serie cilena prodotta per la piattaforma.

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