3% (quarta stagione): la recensione

Dopo 4 anni e 33 episodi di 3% diamo l'addio a Michele e compagnia, e scopriamo se un mondo migliore è possibile: recensione quarta stagione

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3%
3% (quarta stagione): la recensione

Arrivata un po’ in sordina nel 2016 con l’etichetta di “prima produzione Netflix in lingua portoghese”, accolta da ottime critiche e una quantità incognita di visualizzazioni, 3% ci ha impiegato poco a sparire da molti radar tornare nel dimenticatoio, (non) sorretta da una promozione che, almeno in Italia, è durata il tempo di una stagione e rimpiazzata anno dopo anno da un numero imprecisato di nuove “serie del momento” al punto che al momento in cui scriviamo su YouTube non è ancora comparso il trailer di questa quarta stagione.

Quattro anni dopo, 3% arriva alla sua conclusione, con grande sconforto di chi ha continuato a seguirla per tutti i suoi 33 episodi e se l’è vista cambiare davanti agli occhi, allargare gli orizzonti, espandere la mitologia, diventare qualcosa di diverso da quello che era quando, quattro anni fa, ci fece vedere il primo gruppo di candidati al nuovo Processo. Da allora è successo di tutto, e 3% si è trasformata in una serie più politica che distopica, mai sottilissima nelle sue metafore e nei suoi messaggi ma alimentata dalla costante tensione di non avere idea di come possa evolvere la narrazione.

Dov'eravamo rimasti

Se state leggendo questo pezzo sulla quarta stagione assumiamo che conosciate già le prime tre e che vogliate sapere se tutti gli investimenti emotivi fatti finora vengano ripagati dagli ultimi sette episodi. Non serve quindi ricordarvi che la terza stagione si era chiusa con Marcela prigioniera della Conchiglia e André sempre più vicino a diventare un dittatore e ottenere i c.d. “pieni poteri”; né che i Nostri Eroi hanno scoperto l’evento scatenante di quella divisione tra ricchi e poveri che piaga questo angolo di mondo del futuro. Non vi stupirà quindi sapere che l’ultima stagione parla soprattutto di una cosa: pareggiare i conti, livellare il terreno, rimettere finalmente tutta la gente sullo stesso piano per riparare al torto primigenio di quell’impulso elettromagnetico.

E quindi, come nelle precedenti stagioni ma anche più che nelle precedenti stagioni, la quarta e ultima di 3% propone da subito un obiettivo molto semplice, e poi si prende tutto il suo tempo, tra flashback, sequenze oniriche, ritardi nel piano, cambiamenti di piano, fallimenti del piano, improvvisazioni, per arrivare al punto e far succedere quello che deve succedere. Lo fa con tutta la libertà che si è sempre presa (anche in termini di durata: c’è un episodio da 36 minuti e uno da 74, per dire) e senza mai tradire la sua essenza di show televisivo per scadere nella classica scorciatoia del “film a puntate”. I riferimenti stilistici sono sempre i soliti, da Lost – da cui 3% prende l’uso frequente e un po’ didascalico dei flashback, e che in questa stagione viene citato visivamente anche più spesso di quanto non succedesse nelle precedenti – a certe distopie teen (Hunger Games su tutte), ma senza la patina e l'educazione delle grandi produzioni; e la serie continua sulla strada di una messa in scena che alterna momenti di camera a mano che stanno tra il documentario di guerra e il found footage e sequenze più classiche e che non si risparmiano virtuosismi e anche qualche pacchianeria e lungaggine pseudo-poetica.

Dove andremo a finire?

Insomma è sempre 3%, e la qualità è rimasta invariata – anche se è vero che più passa il tempo e arriva il momento di tirare le fila più la scrittura si fa frettolosa e certi personaggi perdono in complessità fino a diventare semplici funzioni narrative (e in un caso ne acquistano fin troppa, al punto da sostituirla con il caos e l’incoerenza – stiamo guardando te, Gloria). Ma c’è da far succedere le cose, in un Offshore sempre più fuori controllo, in una Conchiglia che al contrario sembra aver trovato finalmente un equilibrio, e ovviamente nell’Entroterra, dove nonostante gli sforzi e le rivoluzioni e le conquiste la gente continua a stare malissimo; e quindi perdoniamo a 3% un paio di inciampi e scorciatoie in vista del traguardo, soprattutto perché il momento dell’arrivo è una catarsi (e neanche l’unica della stagione) che aspettavamo da quattro anni.

Ci sarà poi tempo e modo di discutere non tanto del viaggio, quanto della meta: uno dei temi portanti della serie e di questa stagione in particolare è il destino, non inteso come condizione metafisica contraria al libero arbitrio ma piuttosto come discorso sociologico, di caste separate e impossibili da unificare, di stratificazione sociale e impermeabilità dei suddetti strati. E un altro è la frustrazione che prova chi cerca di cambiare il mondo e scopre che alla fine la gente ritorna sempre ai suoi comportamenti originari, che non c’è modo di superarli del tutto e lasciarseli alle spalle, che tanto è tutto inutile. 3% sceglie di chiudersi senza sciogliere esplicitamente il dubbio, ma dando abbastanza indizi da rendere chiara la sua risposta: bisognerà discuterne, e soprattutto decidere se essere d’accordo, e sarà pianto e lo stridor di denti.

Ma, appunto, ci sarà tempo e modo di discuterne. Per ora ci godiamo l’addio dolceamaro (ma più dolce: la serie stava arrivando alla sua naturale conclusione ed è solo giusto che sia finita) di una delle serie migliori e meno considerate dell’intera produzione Netflix, nonché uno dei più bei pezzi di fantascienza sociale di questi anni nei quali il genere è un po’ in sordina vista la concorrenza sleale della realtà, che sta facendo tutto il possibile per mettersi in pari.

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