3/19, la recensione

Un avvocato per grandi aziende ha un incidente in cui muore una persona che non si riesce ad identificare. Questo cambia tutto ma non è chiaro perché

Critico e giornalista cinematografico


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3/19, la recensione

C’è un problema in 3/19 con il lavoro della protagonista. Ma non è chiaro quale sia questo problema. È una pietra che il film porta legata al collo per tutta la sua durata. Aleggia fortissima un’avversione per la professione che svolge il personaggio di Kasia Smutniak, avvocato per grandi aziende che cura contratti, fusioni e via dicendo. In nessun momento ci viene suggerito che si adoperi in pratiche borderline con la legalità, né che lo faccia a discapito dei più svantaggiati. Anzi, si direbbe che lo fa bene, con successo. Tuttavia è chiaro che c'è qualcosa che non va.

Lei, malata di lavoro, dedita alla carriera, ha un incidente in una notte di pioggia. Come spesso avviene questo incidente, da cui esce contusa ma non gravemente, scatena una presa di coscienza, anche perché nello stesso evento invece un’altra persona è morta. Uno sconosciuto che non si riesce ad identificare, un immigrato. Questo scatena nella donna un forte senso di colpa (forse era stata lei ad attraversare la strada con il rosso) e la spinge ad indagare l’identità di questa persona ma di nascosto, furtivamente e nell’ombra.

Per indagare inizia a trascurare il lavoro e la carriera. Prima contavano molto, ora di colpo molto poco. Non ha rischiato di morire, cioè non ha rischiato di perdere tutto quel che aveva e quindi non ha chissà che voglia di vivere, è solo determinata a scoprire quell’identità. E non è chiaro perché questo cozzi con il suo lavoro. Potrebbe essere interessante scoprirlo lungo il film ma non è così, non ci sono piccoli indizi, non ci sono piste inferenziali, non c'è niente che ci metta curiosità, sveli un mistero o suggerisca uno svelamento. L'impressione è che sia qualcosa che dovremmo già sapere ma non sappiamo. Certo ci sarà la rivelazione di un trauma nel passato ma non spiega il cambio di vita. Silvio Soldini gira un film su un cambio radicale di visione della propria vita ma non si capisce da cosa sia motivato.

A 20 minuti dalla fine poi 3/19 cambia e diventa un film sui lutti familiari, sull'eredità del passato e sul fare i conti con i propri fantasmi. E poi ancora diventa un film di viaggi madre-figlia (con il sole da che tutto il film era grigio), viaggi con una mappa stradale cartacea (?!?) che finiscono al mare in una spiaggia di ciottoli (?!?) a discutere di cosa fare al posto di lavorare. Siamo finiti all’opposto di come era iniziato tutto ma, di nuovo, non è chiaro perché. C’è anche un uomo che ha aiutato la protagonista e ci ha stabilito una relazione sentimentale che l’ha abbandonata perché ha intuito (da una telefonata) che lavoro faccia e quindi non ne vuole più sapere di lei.
Questo non è un dettaglio piccolo, è il punto di tutto il film. L’incidente è il MacGuffin, l’abbandono del lavoro è il punto. E non si capisce. Già Il comandante e la cicogna era stato un disastro di scrittura, Il colore nascosto delle cose sembrava un ritorno ad un cinema più corretto (in attesa di uno vitale), ma questo film scombinatissimo, che non sa cosa essere e alla fine non è niente, in cui una riconciliazione familiare finale sembra l'unico modo di dare un senso al tempo speso dallo spettatore nel guardarlo, fa presagire il peggio.

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