1899 (prima stagione), la recensione

La prima stagione di 1899 strizza invano l'occhio a Dark, finendo per ricadere in una paradossale palude di prevedibilità sconclusionata

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La nostra recensione della prima stagione di 1899, disponibile dal 17 novembre su Netflix.

Quando, nel 2017, Dark esordì sugli schermi televisivi, generò un'ondata di fascinazione per la sua struttura complessa e la saggia gestione di diversi piani temporali. Per chi non l'avesse presente, la serie tedesca si articolava su tre linee cronologiche principali (anni '50, anni '80 ed epoca contemporanea); su questi tre tracciati, i personaggi si muovevano secondo regole svelate via via che l'intreccio si dipanava. A distanza di due anni dalla fine della serie, gli stessi autori Baran bo Odar, Jantje Friese presentano al pubblico una nuova creatura pronta a far scervellare il pubblico: 1899.

Fin de siècle

Come il titolo suggerisce senza mezzi termini, l'anno in cui la vicenda si svolge è proprio il 1899; ultimo sprazzo di un secolo romantico, fautore di rivoluzioni industriali e foriero di esplorazioni. A bordo della Kerberos, piroscafo europeo diretto verso New York, si muove un microcosmo multietnico che somiglia molto a una Babele vittoriana. Francesi, inglesi, spagnoli, svedesi, polacchi, cinesi; ognuno col proprio bagaglio di segreti e drammi, ognuno con il proprio linguaggio a isolarlo in una bolla di riservatezza e, perché no, alienazione.

A guidarci nell'esplorazione di cabine, ponti e sale macchine è l'inglese Maura Franklin (Emily Beecham) medico di troppo ampie vedute che mira a ricongiungersi col fratello nella metropoli americana; il tutto, ovviamente, lasciandosi alle spalle un passato di soprusi e sofferenza di cui ci vengono offerti rapidi ma intensi flash. Sua controparte maschile è il capitano della nave, il tedesco Eyk Larsen (Andreas Pietschmann), introverso e determinato; è lui a "pilotare" la principale svolta di trama, quando decide di deviare dalla rotta prestabilita per intercettare la Prometheus, nave gemella della Kerberos dispersa da quattro mesi.

Lingue e linguaggi

L'ostacolo iniziale che in Dark era rappresentato dalle epoche, è qui reso dagli idiomi; il divario non è più temporale, ma etnico, antropologico, nonché, a un livello più immediato, linguistico. Molto avrebbe potuto fare 1899 con questa premessa e, in effetti, alcune tra le scene migliori di questa stagione sono legate alla comunicazione non verbale. In un'epoca in cui la conoscenza del linguaggio non poteva essere improvvisata, l'unico modo per valicare un muro lessicale è affidarsi a un dialogo "altro". Sguardi, espressioni, empatia di gesti; tutto questo viene raccontato con una certa sensibilità dalla serie di Odar e Friese, costituendone la parte più interessante.

Ciò in cui 1899 risulta invece tragicamente carente è proprio il linguaggio narrativo; sebbene animata dal chiaro intento di sorprendere lo spettatore, la serie inanella colpi di scena privi di pathos con l'unico risultato di confondere il pubblico. Non è però, si badi, una confusione foriera di curiosità: su tutto regna la netta sensazione che, quando giungerà, l'articolata spiegazione non sarà minimamente soddisfacente. Non giova al ritmo il fatto che, dal misterioso nucleo centrale, si dipani una rete di troppe sottotrame, a creare un arazzo fin troppo popoloso che non sempre dà il giusto rilievo ai suoi diversissimi personaggi.

Simbolo o brand?

Aggiungiamo alla perplessità per la gestione di questo palcoscenico sovraffollato quella per il simbolismo esibito in modo sfacciato; dimenticate qualsiasi raffinatezza, 1899 vi martellerà con forme e figure ripetute fino all'esasperazione, tali da far sorgere troppo prematuramente dubbi sulla veridicità di ciò che stiamo vedendo. Che si tratti di una sorta di allucinazione collettiva può starci; può starci meno considerare lo spettatore un imbecille, martellandolo con la reiterazione del tutto implausibile - in un contesto realistico - dello stesso simbolo.

Altre serie con ambizioni forse accostabili a 1899 avevano gestito con raffinatezza i rimandi visivi (basti pensare a The OA); qui, la strizzata d'occhio cede il passo a una rozza gomitata, in un gioco di richiami scadente e ripetitivo. Certo, il loop appare elemento chiave della serie, ma è qui sinonimo di monotonia e povertà di idee. È ancora presto, è vero, per bocciare una serie che ha appena iniziato a svelare le sue carte; tuttavia, per ora ci sembra in tutto e per tutto accostabile a una borsa coperta di marchi: opulenta, sì, ma anche un po' cafona.

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