Torino 33 - Mia Madre fa l'Attrice, la recensione

Tra film vero e proprio e suo backstage, Mia madre fa l'attrice racconta il tentativo di fare un film e ricucire un rapporto ma non diventa mai universale

Critico e giornalista cinematografico


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Ancora una volta Mario Balsamo realizza un film di finzione a partire da immagini vere, senza nascondere mai i dispositivi di messa in scena, cioè con la volontà di mettere lo spettatore a conoscenza del farsi stesso del film. A Torino aveva presentato 3 anni fa Noi non siamo come James Bond e adesso porta ancora una volta un film che al tempo stesso è opera e suo backstage, che è cronaca del tentativo di farsi. L’intento è sempre quello di parlare di sè e delle persone che gli sono accanto.

Silvana Stefanini, madre di Mario Balsamo, è stata attrice per alcuni anni della sua vita e, si intuisce dai dialoghi che ha oggi con il figlio, l’ha a lungo raccontato, ricordato e mitizzato. Comparsa in film grandi e attrice di secondo piano in produzioni molto più piccole, non ha mai davvero sfondato. Oggi il tentativo di ricostruire quella carriera in un film documentario e contemporaneamente di rilanciarla facendola partecipare al casting di un film di Verdone è occasione per i due per riavvicinarsi e parlare del loro irrisolto rapporto.

Mia madre fa l’attrice sembra in preparazione da più di dieci anni, a giudicare dal materiale di repertorio che Balsamo sfoggia, o quantomeno la sua idea è nella testa dell’autore da così tanto tempo ma solo adesso diventa realtà. Ci sono però due ragioni principali per le quali il flim non riesce mai ad arrivare dove vorrebbe. La prima è puramente formale, e sta nello stile scarno e minimale di Balsamo che non è mai supportato da una tecnica che riesca a farsi forza della scelta estetica. Il digitale e quello che sembra un apparente uso di luci naturali, non sfociano mai in una vicinanza maggiore alla storia, la videocamera abita le scene con improvvisata naturalezza non supportata da quell’abilità che può consentire il salto da video amatoriale a ripresa documentaristica. In tutto e per tutto l’impressione è di una produzione povera che si fa vanto di tale povertà, ostentando i suoi pochi mezzi.

Dall’altra parte la seconda perplessità è contenutistica, e sta molto nell’insistenza con la quale Balsamo porta se stesso in scena. Non si può negare che quasi tutti i cineasti che aspirano alla definizione di autori portino se stessi in scena, sebbene attraverso storie fantastiche, ma nel caso di Balsamo l’approccio diretto alla propria vita appare particolarmente fumoso. Le sue traversie personali, i suoi rapporti irrisolti e la sua difficoltà ad esprimerli (che porta a tortuosi giri di parole o peripezie finalizzate solo a dare conto di un’aspirazione, un desiderio o una difficoltà) non sì fanno universali e rimangono molto personali. Nei suoi film non pare di vedere mai “la storia di tutti attraverso le peripezie di Balsamo” ma solo “i fatti di Balsamo”. In un campo in fondo non troppo diverso Il pranzo di ferragosto, iniettando molta più finzione ma a parità di mezzi, aveva trovato un equilibrio e una distanza dalla storia decisamente migliori grazie a scelte tecniche ed estetiche che forse sono più adeguate.

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