13 Hours: The Secret Soldiers Of Benghazi, la recensione
Michael Bay tiene a bada il suo stile, punta sull'essenziale e cerca l'eroismo negli uomini e non nei valori, 13 Hours non è davvero quel che si aspetta
In questa storia, di suo già molto cinematografica, fatta di sole due sequenze di azione ma molto lunghe (praticamente tutto il secondo tempo), fatta di due assedi e di una missione disperata, a Bay non interessa il rapporto dell’America con il mondo, non interessa la malvagità dei cattivi ma solo l’eroismo di alcuni uomini. Dove si annida l’eroismo oggi? In un mondo in cui la guerra è diversa e i conflitti sono diversi, chi sono gli eroi? A sorpresa per 13 hours non si trovano nell’esercito o nell’establishment ma sono i mercenari, ovvero i contractor, persone pagate per fare la guerra eppure, dal punto di vista di Bay, gli ultimi tenutari di un codice militaresco più grande di loro.
È evidente che siamo di fronte al trionfo della retorica, ma nel portare avanti questa retorica con uno stile davvero asciutto (per i suoi standard!), senza star o volti noti ma con una serie di seconde linee a fare l’everyman americano (sempre con famiglia a carico che attende via Skype il ritorno), Michael Bay trova quell’umanesimo che il suo cinema spesso trascura.
Semplicissimo nella scrittura, elementare nelle relazioni e basilare nella componente umana, il semplicismo dei suoi personaggi una volta tanto prende il proscenio. Il suo filmare è sempre più raffinato, sempre più tecnico e inesorabile (addirittura privato della magnificenza cui ci ha abituato emerge ancora di più la sua bravura nel narrare l’azione e la storia insieme) e qui sì arricchisce di una grande idea drammaturgica, cioè di un caos indotto dall’impossibilità di comprendere chi dei locali stia con gli americani e chi no. Con questo dettaglio il film getta una luce interessante e non stereotipata su un mondo (quello dove è ambientato il film) in cui tutti sì conoscono, buoni e cattivi, tutti sembrano essere uguali e accanto alla tragedia umana qualcuno guarda una partita di calcio sereno. È un inferno privo di senso che rimanda ad Apocalypse Now! e a quel tipo di stupore di fronte ad una violenza che è sconosciuta e incomprensibile non tanto sentimentalmente quanto proprio logicamente.
Certo non siamo dalle parti di una messa in questione del problema, 13 Hours non è proprio quel tipo di film, rifiuta ogni costruzione intellettuale e parla alla pancia. Se su materie simili in tempi recenti uno come Clint Eastwood si è chiesto che ne sia di tutta questa violenza una volta tornati a casa (e paradossalmente, in un altro mondo, Jacques Audiard si è fatto la stessa domanda con Dheepan), Bay non si pone simili domande, per lui la violenza non è un problema nè si chiede che effetto abbia tutto ciò o se sia giusto. 13 Hours è prima di tutto un film celebrativo, ma uno che la sua celebrazione la perpetra attraverso attraverso un film impeccabile e con una potente messa in discussione del sistema, puntando il dito verso il proprio paese (e un’amministrazione non casualmente democratica) per esaltare degli uomini, eroi per quello che sono e quel che hanno fatto e mai perché specchio dell’etica e dello spirito americano. E questa è una novità.