12 Years a Slave, la recensione
Presentato oggi al London Film Festival, il terzo lavoro di Steve McQueen conferma il suo talento visivo e strizza l'occhio a Hollywood senza rinunciare all'autorialità...
Se son rose, fioriranno. E son fiorite assai bene, le rose dell’inglese Steve McQueen, approdato al cinema al culmine di una prestigiosa carriera da artista “puro”. Dopo un esordio dolente come una pugnalata, Hunger (2008), e un altrettanto scioccante pugno allo stomaco sferrato con Shame (2011), McQueen si carica sulle spalle il gravoso racconto dell’odissea di Solomon Northup, violinista di colore, che dalla nativa Saratoga finisce raggirato e venduto come schiavo, precipitando in una spirale di dolore e violenza che lo porterà a conoscere le insenature più oscure dell’animo umano.
Saltando a piè pari qualunque semplicistico accostamento tra il film di McQueen e Django Unchained di Tarantino, tocca concordare col giudizio emesso all’unanimità dalla critica statunitense (12 Years A Slave è stato già presentato al Telluride e al Toronto Film Festival): promozione a pieni voti. Si parla già di Oscar, e la prospettiva appare certo più concreta adesso di quanto non lo fosse nel 2011, con Shame che raccontava il microcosmo ossessivo della dipendenza sessuale.
Guardando le strepitose interpretazioni di Chiwetel Ejiofor e dell’attore feticcio di McQueen, Michael Fassbender, viene voglia di lanciar loro una statuetta a testa al volo prima che qualche altro pretendente possa affacciarsi alla soglia degli Academy Awards. Se a questo aggiungiamo che McQueen si conferma artista visivo fino al midollo, e che la sua mano pittorica si riconosce in quasi tutte le inquadrature, il verdetto finale è in pratica scontato.
Insomma, 12 Years A Slave è non solo un bel film, ma addirittura un gran film, intenso e straziante, dotato di una carica emozionale più immediata e classica dei precedenti lavori di McQueen.
Ma, c’è un ma.
Rispetto al crudo, spiazzante realismo di Hunger e Shame, quest’ultimo film ha una sorta di patina impalpabile, un filtro hollywoodiano che non arriva mai a snaturare il tratto inconfondibile del cineasta londinese, ma che attutisce la forza del colpo da lui sferrato. Le frustate sulla schiena degli schiavi sono espressioni di una violenza esplicita e terrificante, eppure non dilaniano quanto la lenta consunzione di Bobby Sands in Hunger o le disperate masturbazioni di Brandon in Shame. L’enormità del dramma di Solomon è una tragedia immane che coinvolge migliaia di anime, ma il sentimento dello spettatore resta incollato a un’inevitabile, sacrosanta ma comunque generica pietà, senza mai compiere un minimo scarto.
McQueen piazza il treno su un binario dritto, e conduce con una sapienza rara, ma fuori dal finestrino non vedremo nulla di diverso da ciò che ci aspettiamo. Il miglior film sulla schiavitù che si possa immaginare, ma già in questa dicitura è ravvisabile un limite. Manca la sospensione, l’incertezza, la sorpresa. Manca il colpo di scena non strettamente legato alla trama con la T maiuscola, ma il cambio di direzione, l’indizio velato che qualche cosa possa essere diversa da come l’abbiamo percepita a una prima occhiata.
Il limite di 12 Years A Slave sta nel suo manicheismo inesorabile, che appesantisce irrimediabilmente la percezione dell’intera storia. La divisione, certamente derivata dal libro d’origine, tra buoni buonissimi e cattivi cattivissimi è funzionale alla necessità di restituire al pubblico del terzo millennio l’abominio della schiavitù, pane quotidiano dell’America ottocentesca. Tuttavia, la dualità alla lunga finisce per stuccare, e benché non cali mai l’empatia per le sofferenze del protagonista, l’attenzione verso il contesto generale non può che diminuire. Gli schiavi saranno sempre buoni, i padroni saranno sempre cattivi. E gli dei ex machina saranno riconoscibili dalla prima sillaba.
A questa realistica ma costante divisione sfugge forse solo il personaggio del primo padrone di Northup, il reverendo William Ford, interpretato con misurata maestria dal talentuoso onnipresente Benedict Cumberbatch. È lui l’unica, fulminea cometa di dubbio che si affaccia sull’orizzonte di Northup: troppo buono per essere un aguzzino, troppo figlio del proprio tempo per essere un alleato. Il giudizio rimane sospeso, e il pubblico riconosce l’imparzialità del grande regista.
In conclusione: 12 Years A Slave è un capolavoro. Il termine puzza di sensazionalismo, ma sarebbe ingiusto definirlo altrimenti. La sua fatale disgrazia è essere la terza opera di un autore che ha già all’attivo due capolavori superiori a essa. Colpa perdonabile, e anche piuttosto comprensibile: se i pronostici saranno esatti, la mediazione tra autorialità e tradizione costringerà McQueen a far spazio sulla mensola dei premi per accogliere il buon vecchio Oscar. E per quanto sia il frutto di un compromesso, 12 Years A Slave porta chiaro su di sé il marchio inconfondibile del genio.