Total Recall - Atto di Forza, la recensione

Nonostante i passi in avanti fatti dagli effetti visivi in questi anni, il nuovo Total Recall sembra più vecchio del precedente Atto di Forza...

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Sono passati ventidue anni da quando Paul Verhoeven firmò uno dei suoi film hollywoodiani di maggiore successo. Sembra ieri, ma effettivamente non lo è, e nell’epoca in cui di Spider-Man si fa un “reboot” a distanza di dieci anni, possiamo aspettarci un remake a una così breve distanza di tempo.

L’ispirazione, ora come allora, è il racconto breve "We Can Remember It for You Wholesale" di Philip K. Dick pubblicato per la prima volta a fine anni ‘60 sul The Magazine of Fantasy and Science Fiction, storia fantascientifica ambientata in un lontano futuro in cui un operaio si trova a essere perseguitato da un sogno ricorrente decidendo di farsi impiantare temporaneamente dei falsi ricordi per vivere (virtualmente) una vacanza che lo distolga dalla monotonia della sua vita quotidiana. Peccato solo che al momento dell’operazione qualcosa vada storto: il protagonista sembra aver già subito un lavaggio del cervello e non è chi credeva di essere...

Detta così, a grandi linee, la storia dei due Total Recall (in Italia il primo fu tradotto con il titolo di Atto di forza) sembra percorrere lo stesso canovaccio. E in parte è così, anche se cambiano molti dettagli e personaggi, oltre che l’approccio stesso verso la storia raccontata.

Partiamo dai dettagli: niente più Marte come nel racconto di Dick e nel film di Verhoeven, bensì una Terra ormai semidisabitata con tanto di “ascensore” che passa per il centro del globo e che collega le due uniche zone popolate, “la federazione britannica” e la sua colonia australiana. Di conseguenza manca tutto quel processo di scoperta che Hauser faceva una volta arrivato sul pianeta rosso, dai problemi di respirazione (che si rivelano fondamentali per l’epilogo) alle radiazioni che hanno creato i mutanti. Più spazio viene dato inoltre alla sua (fasulla) moglie, vero cattivo della situazione che lo insegue ovunque con la tenacia che in altri film dedicherebbe alla caccia ai vampiri (nell’originale Sharon Stone aveva uno spazio limitato, più ambiguo e meno action). Sarà che Kate Beckinsale è la moglie del regista Len Wiseman (che l’ha diretta oltretutto nella saga Underworld), ma la sua continua presenza sullo schermo alla fine stanca anche il suo fan più accanito.

In generale però la vera pecca di questo (nuovo) film è la totale assenza di ironia. Tutto è preso tremendamente sul serio, non c’è un bagliore di luce finché non si è prossimi ai titoli di coda, ci si spara, ci si prende a calci, ci si ammazza, ci si insegue e così via, senza mai dare un po’ di respiro alla storia. Wiseman gira bene alcune sequenze, in particolare il primo inseguimento tra le baracche cittadine (che ricorda tanto quelli di L’incredbile Hulk con Edward Norton tra le favelas brasiliane e di Matt Damon in The Bourne Ultimatum), ma sovraccarica di azione le sue quasi due ore di pellicola, finendo spesso con l’annoiare.

Il doppio finale poi ha un gusto insopportabilmente retrò, da film che non ce la fanno proprio a terminare e basta, devono sempre metterci dentro un improbabile colpo di coda.

Sarà che Schwarzenegger sembrava il protagonista perfetto per un film del genere, ma Colin Farrell sembra caduto per caso all’interno della storia, sempre in balia degli eventi, più di quanto la sceneggiatura già non faccia, e mai coscientemente dentro la storia. Se il primo Atto di Forza riusciva ad essere un thriller che scopriva le proprie carte a poco a poco, questo remake brucia subito i suoi assi nella manica (già il sogno del prologo racconta il 90% della storia) dando pochi spunti di interesse a chi, anche se non avesse visto il film con Schwarzy, volesse capire cosa si nasconde dietro al misterioso passato del protagonista. Il risultato è un film che nonostante i passi in avanti fatti dagli effetti visivi in questi anni, sembra più vecchio del precedente, incapace di trovare una propria via narrativa che non sia quella dell’uno contro tutti-sparatutti che tanto contraddistingue molti videogiochi di oggi. Peccato.

 

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