Gunda, la recensione | TFF38

Lavorando tantissimo sull'immagine, sulla vicinanza e su un rapporto diverso con l'oggetto ripreso, Gunda trasla il naturale nel sentimentale senza sforzi

Critico e giornalista cinematografico


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C’è fin da subito una qualità calamitante nelle immagini di Gunda, un che di misteriosamente intrigante che tiene avvinti ad un pianosequenza immobile sulla testa di una scrofa. È il sound design, è il bianco e nero molto dettagliato e molto saturo, è il mistero di cosa avvenga nell’unica zona di buio dell’inquadratura. La sorpresa sarà tutta narrativa, escono dei piccoli maiali. I rumori erano quelli del parto e adesso i nuovi nati escono fuori cascando come trucioli di legno. Gunda non riuscirà a ripetere quest’inquadratura miracolosa, fatta di un montaggio interno spontaneo, parecchie volte lungo la sua durata ma davvero mette sullo schermo una quantità impressionante di soluzioni visive che trasformano l’ordinario in straordinario e lo arricchiscono di senso spingendo lo spettatore a partecipare alla sua costruzione.

Prima che essere un saggio pro-veganesimo, prima di essere un documentario dichiaratamente molto artefatto (sonoro artefatto, location artefatte, colori artefatti…) Gunda è uno studio sulle maniera in cui è possibile guardare la realtà. Non ci sono molti modi in cui immagini della vita quotidiana di una scrofa e dei suoi piccoli maiali possano essere interessanti, senza una storia a supportarle, ma Gunda li centra tutti. Avvicinandosi in modi mai visti, arrivando ad una distanza quasi impossibile dagli animali trova l’interesse. Illuminando il piccolo rifugio con luci da cinema classico hollywoodiano, trovando nelle riprese esterne la comunione con la natura dei classici russi e immaginando movimenti di camera ad altezza zero (ma letteralmente, parliamo di qualche millimetro dal terreno) riesce nell’impresa che molti tentano fallendo: uno sguardo diverso sulla natura.

È ovviamente uno sguardo poetico, aiutato dal bianco e nero, miracolato da una capacità unica di far fare al naturale il salto nel sentimentale, solo usando la luce e la posizione dell’obiettivo.
Tutto il resto è ideologia, quella molto precisa, molto dichiarata e fieramente esibita per immagini senza parole di Viktor Kosakovskiy, vegano in missione per convertire i carnivori tramite le lacrime. E ce la mette tutta. È la parte più fastidiosa di Gunda, quella che cerca sempre la tenerezza, che insiste come può organizzando le immagini per farci tremare, farci palpitare e farci empatizzare. Significa mostrare la morte di un piccolo dopo una serie di inquadrature che ne hanno enfatizzato la tenerezza e la lotta per la sopravvivenza. Non è niente di naturale e tutto di (meravigliosamente) organizzato dal regista tramite montaggio e fotografia, la partecipazione totale alla monotonia di un maiale, ai pomeriggi steso al sole e alle sessioni di allattamento.

La scelta di non avere nessun tipo di narrazione interna alla lunga è un po’ penalizzante, ci sono più momenti in cui Gunda non riesce a tenere il livello qualitativo mostruoso che servirebbe, specie quando devia su dei polli e una mucca. Ma di fatto, nel complesso, è davvero un film come non ce ne sono, un’esperienza fortissima che, per fortuna, nel finale è coronata da un’idea narrativa. Non è dato sapere quanto ci sia di reale e forse non importa. Il finale sembra quasi echeggiare quello di The Act Of Killing (anche lì impossibile dire quanto ci sia di vero e quanto di costruito con il montaggio) e se per il regista è l’apice della sua grande orazione vegana, per tutti gli altri è la dimostrazione definitiva di cosa sia riuscito a creare fino a quel momento in cui ne raccoglie i frutti.

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