Gunda, la recensione | TFF38
Lavorando tantissimo sull'immagine, sulla vicinanza e su un rapporto diverso con l'oggetto ripreso, Gunda trasla il naturale nel sentimentale senza sforzi
È ovviamente uno sguardo poetico, aiutato dal bianco e nero, miracolato da una capacità unica di far fare al naturale il salto nel sentimentale, solo usando la luce e la posizione dell’obiettivo.
Tutto il resto è ideologia, quella molto precisa, molto dichiarata e fieramente esibita per immagini senza parole di Viktor Kosakovskiy, vegano in missione per convertire i carnivori tramite le lacrime. E ce la mette tutta. È la parte più fastidiosa di Gunda, quella che cerca sempre la tenerezza, che insiste come può organizzando le immagini per farci tremare, farci palpitare e farci empatizzare. Significa mostrare la morte di un piccolo dopo una serie di inquadrature che ne hanno enfatizzato la tenerezza e la lotta per la sopravvivenza. Non è niente di naturale e tutto di (meravigliosamente) organizzato dal regista tramite montaggio e fotografia, la partecipazione totale alla monotonia di un maiale, ai pomeriggi steso al sole e alle sessioni di allattamento.
La scelta di non avere nessun tipo di narrazione interna alla lunga è un po’ penalizzante, ci sono più momenti in cui Gunda non riesce a tenere il livello qualitativo mostruoso che servirebbe, specie quando devia su dei polli e una mucca. Ma di fatto, nel complesso, è davvero un film come non ce ne sono, un’esperienza fortissima che, per fortuna, nel finale è coronata da un’idea narrativa. Non è dato sapere quanto ci sia di reale e forse non importa. Il finale sembra quasi echeggiare quello di The Act Of Killing (anche lì impossibile dire quanto ci sia di vero e quanto di costruito con il montaggio) e se per il regista è l’apice della sua grande orazione vegana, per tutti gli altri è la dimostrazione definitiva di cosa sia riuscito a creare fino a quel momento in cui ne raccoglie i frutti.