Rebecca, la recensione
Privato di ogni anima, ogni interesse e ogni spigolo, Rebecca è la versione più blanda possibile del romanzo di Daphne Du Maurier
Ce ne voleva per succhiare via da Rebecca, la prima moglie, ogni alito di vita e di tensione , oltre che ogni sottotesto.
Ce ne voleva insomma per passare dalla storia di una donna che si scontra con lo spettro di un’altra, con un confronto sempre incombente e una competizione impossibile, ad una di criptici amori in Costa Azzurra.
In ogni momento in cui Armie Hammer invece che rispondere si gira e se ne va, lasciando la protagonista basita, dubbiosa e spaventata su cosa stia accadendo, un pezzo di storia del cinema marcisce e va a male. Ogni qualvolta Kristin Scott Thomas, nei panni della governante gelosa, s'impunta e irrigidisce senza lasciar mai trasparire l’altera ambiguità, una parte dell’eredità del cinema anni ’40 (per non tirare in ballo la letteratura) cade in pezzi.
Tuttavia lo sconforto profondo e la fatica nella visione di questo Rebecca non si misurano solo tramite confronti cattivi e impietosi con capolavori passati (anche se va sempre precisato che nessuno li obbligava a questo confronto, nessuno ha ordinato questo film se non i suoi produttori), anche la sola visione di questo film uscito solo su Netflix basta.
Perché pur prendendo Rebecca per quel che è, senza conoscere altro, è evidente il pessimo servizio che fa alla propria storia di amore, ascesa sociale, confronto e relazione tra donne.
Di tutte le possibilità offerte dalla trama di una donna sola che trova un amore inatteso, lo sposa al volo e nel trasferirsi nella ricca magione di lui viene schiacciata dal ricordo ingombrante della prima moglie, il film non ne coglie nessuna. Sembra proprio che non gli interessi minimamente che cosa implicano le scene che mette in fila ma, come le peggiori fiction, si limiti a proporle. Sembra che stia leggendo annoiato un testo, andando sufficientemente lento per comprendere l’intreccio ma anche sufficientemente veloce per sbrigarsi e saltare tutto quello che non è indispensabile.
La ferma intenzione di dirigere Armie Hammer nel modo più stolido possibile, di lasciare che Lily James declini per tutto il tempo diverse variazioni di una medesima espressione stupefatta e dolcemente vittima, sono una piaga. L’opposizione grossolana tra il maniero maligno custodito dalla governante e le cristalline intenzioni della coppia lo è altrettanto (senza che mai ci sia un velo di ambiguità, un tocco di genuina rabbia, paura o reale sgomento). Di tutta la fatica messa in piedi (poca) per la più consueta delle ricostruzioni d’epoca pure c’è ben poco da fare. Nessun ambiente sembra mai vivo, tutto si presenta come il massimo del fasullo.
Quale parte esattamente dovrebbe essere quella che attira lo spettatore? Quale snodo, quale dettaglio e quale elemento dovrebbero appassionare alla storia di due persone che sembrano non aver niente da dire su stessi (figuriamoci sugli eventi da cui sono sballottati)?