Outside the Wire: la recensione

Grandi temi, poche idee: il nuovo film di Netflix con Anthony Mackie è competente ma completamente dimenticabile

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Pianeta Terra, anno 2036: le cose vanno prevedibilmente malissimo, e il mondo intero è in guerra. Siamo al confine tra Russia e Ucraina, in una zona che la potenza sovietica vuole riconquistare e annettere (“come ai vecchi tempi” commenta qualcuno); gli eserciti russo e ucraino combattono da anni una logorante guerriglia contro la resistenza, e di mezzo ci sono anche gli immancabili Stati Uniti, presenti nella zona demilitarizzata circostante con un po’ di soldati in missione di pace, e un terrorista signore della guerra di nome Koval.

Ah, e c’è pieno di robot: il mondo tra 15 anni, nella visione di Mikael Håfström, non avrà fatto grandi passi avanti dal punto di vista tecnologico se non in ambito bellico, per cui le guerre si continuano a combattere come un tempo, con i militari in trincea che rischiano la vita, ma anche con potentissimi droni telecomandati – esattamente come accade oggi, a dirla tutta – e con un esercito di robot che assomigliano ai Centurion di Battlestar Galactica e che affiancano, invece di sostituire, i soldati in carne e ossa. Avrete forse capito che Outside the Wire, appena uscito su Netflix (guarda il trailer), non è un film concepito con particolare cura: è un film bellico dai vaghi toni fantascientifici che non dice nulla che non sia mai stato detto prima sull’AI, l’emotività dei robot e la moralità della guerra via proxy, in compenso lo fa nel modo più grigio e burocratico possibile.

La storia è quella di Thomas Harp (Damson Idris), pilota di droni che durante una missione disobbedisce a un ordine e, per eliminare un bersaglio da lui ritenuto pericoloso, uccide anche due dei suoi commilitoni. La punizione che gli viene inflitta è quella di farsi un periodo di esperienza sul campo, per vedere in prima persona i frutti del suo lavoro: viene quindi affiancato al capitano Leo (Anthony Mackie), il quale, come si scopre nei primi quindici minuti di film oltre che nel materiale promozionale del film stesso, è un androide superintelligente, senziente e capace di empatia – un progetto supersegreto degli Stati Uniti che, se avesse successo, rappresenterebbe un passo avanti rispetto ai robosoldati e il futuro stesso della guerra. I due vengono mandati a consegnare un carico di vaccini, e forse, ma questo non ditelo ai loro capi, a investigare sulle intenzioni del cattivissimo Koval, un villain che esiste solo in quanto nome e per cinque frettolosi minuti di film durante i quali ha la faccia di Pilou Asbæk. Nel corso della missione, ovviamente, impareranno a conoscersi: Harp rientrerà in contatto con il suo lato umano soffocato dal suo mestiere di pilota di droni, mentre Leo, be’, quello non ve lo diciamo.

Se avete visto anche solo un paio di film riconducibili in qualche modo all’opera di Asimov, sapete già tutto quello che Outside the Wire vuole dire, anche se forse non vi aspettate certe incursioni nella geopolitica e nella filosofia della rivoluzione armata. È il problema più grosso del film di Håfström: butta nel calderone un’infinità di spunti di ogni tipo, dall’etica del conflitto alle questioni esistenziali, e poi li sviluppa nel modo più banale e prevedibile, come se fossero solo una distrazione dalla sparatoria successiva. Peccato quindi che anche l’azione non sia all’altezza di un Anthony Mackie che spacca tutto a pugni con grande gusto: Outside the Wire è piatto non solo cromaticamente ma anche per messa in scena e scrittura, dei dialoghi in particolare, con degli scambi che sembrano usciti da un manuale di sceneggiatura base per le elementari. Il paradosso è che non c’è nulla di veramente sbagliato nel film, che se fossimo a scuola tornerebbe a casa con una sufficienza stiracchiata: è solo che quello che c’è non è abbastanza da suscitare qualcosa.

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