Outside the Wire: la recensione
Grandi temi, poche idee: il nuovo film di Netflix con Anthony Mackie è competente ma completamente dimenticabile
Ah, e c’è pieno di robot: il mondo tra 15 anni, nella visione di Mikael Håfström, non avrà fatto grandi passi avanti dal punto di vista tecnologico se non in ambito bellico, per cui le guerre si continuano a combattere come un tempo, con i militari in trincea che rischiano la vita, ma anche con potentissimi droni telecomandati – esattamente come accade oggi, a dirla tutta – e con un esercito di robot che assomigliano ai Centurion di Battlestar Galactica e che affiancano, invece di sostituire, i soldati in carne e ossa. Avrete forse capito che Outside the Wire, appena uscito su Netflix (guarda il trailer), non è un film concepito con particolare cura: è un film bellico dai vaghi toni fantascientifici che non dice nulla che non sia mai stato detto prima sull’AI, l’emotività dei robot e la moralità della guerra via proxy, in compenso lo fa nel modo più grigio e burocratico possibile.
Se avete visto anche solo un paio di film riconducibili in qualche modo all’opera di Asimov, sapete già tutto quello che Outside the Wire vuole dire, anche se forse non vi aspettate certe incursioni nella geopolitica e nella filosofia della rivoluzione armata. È il problema più grosso del film di Håfström: butta nel calderone un’infinità di spunti di ogni tipo, dall’etica del conflitto alle questioni esistenziali, e poi li sviluppa nel modo più banale e prevedibile, come se fossero solo una distrazione dalla sparatoria successiva. Peccato quindi che anche l’azione non sia all’altezza di un Anthony Mackie che spacca tutto a pugni con grande gusto: Outside the Wire è piatto non solo cromaticamente ma anche per messa in scena e scrittura, dei dialoghi in particolare, con degli scambi che sembrano usciti da un manuale di sceneggiatura base per le elementari. Il paradosso è che non c’è nulla di veramente sbagliato nel film, che se fossimo a scuola tornerebbe a casa con una sufficienza stiracchiata: è solo che quello che c’è non è abbastanza da suscitare qualcosa.