Notturno, la recensione | Venezia 77

Meno fondato sull'unione tra lo storytelling del cinema di finzione e le radici del documentario Notturno è uno studio sulle immagini bello ma poco convincente

Critico e giornalista cinematografico


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Questa volta non c’è una comunità come in Sacro Gra, Fuocoammare e Below Sea Level. Nonostante sia andato di nuovo su una zona di “confine”, stavolta Gianfranco Rosi ha visitato 4 paesi o meglio i territori di confine di questi tre paesi lungo 3 anni (Iraq, Kurdistan, Syria e Libano). Lo spiegano i cartelli iniziali che somigliano a quelli che introducono i film storici americani.

Contrariamente al solito quello con cui Rosi è tornato dalle sue esplorazioni umane sono quasi delle foto. Le riprese che raccontano quei luoghi e le persone che li abitano, quelle lontane dal fronte ma che risentono di quel che accade lì, sembrano stavolta foto in movimento. Rosi ha sempre trovato composizioni clamorose, è sempre stato bravissimo a piazzarsi e centrare il punto di vista giusto per mostrare qualcuno o qualcosa, anche solo un ambiente. Qui però le immagini non hanno storie forti al loro interno, testimoniano qualcosa cercando la maniera visiva di renderla vicina a noi.

L’immaginario di quel Medio Oriente è più che altro fondato e alimentato dalla televisione e dalla corrispondenza degli Esteri, saturo di immagini sempre uguali e di idee sempre uguali che prolungano ciò che già pensiamo sempre uguale. Rosi cerca di rompere tutto questo a partire dalle immagini, la gran parte delle quali girate all'alba dopo "un notturno che pare infinito" come dicono le note del film. Madri piangenti in una specie di prigione delle anime che pare uscita dai Prometheus di Ridley Scott, soldati che marciano all’alba, dello street food, soldatesse che dormono e riposano e un cavallo piantato in mezzo alla strada, frontale, che quasi guarda in macchina sono alcuni dei momenti più clamorosi. Non raccontano un altro Medio Oriente, semmai raccontano lo stesso che pensiamo di conoscere con una prossimità umana completamente diversa.

Strumento più indispensabile che mai è il sound mix. Molto più influente che in passato è il giocattolo con cui Rosi sembra essersi divertito di più stavolta. L’alterazione della presenza o assenza di certi suoni (e quindi la loro repentina comparsa) è usata per dare senso, sottolineare, puntare l’attenzione, stupire ed evocare.

Certo tutto questo è molto meno coinvolgente dei due clamorosi film che questo documentarista ha alle spalle. Ci sono dei nuclei e quindi delle microstorie ricorrenti o almeno che seguiamo più di altri ma la loro sono storie deboli. Questo è un film di immagini, immagini di cantine, di vie e vite irrisolte, condizionate dalla guerra tra i ruderi.

È vero che sono storie monche per c’è in essere sempre un’attesa, una provvisorietà. Ma quel che è ragionevole e funziona in teoria inevitabilmente non funziona nella pratica come i giochi di generi, sottotrame, umorismo e tensione dei film precedenti.

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