Mank, la recensione
David Fincher ha Incartato il suo Mank dentro Quarto potere, ma il film brilla solo quando se ne allontana
Intorno a Mank c’è lo scrigno di Quarto potere. Questa non è solo la storia della realizzazione del film più noto di Orson Welles e nello specifico di come il suo sceneggiatore Herman J. Mankiewicz abbia prima vissuto, poi messo in sceneggiatura (unendo finzione a realtà) i temi fondamentali di Quarto potere, ma è anche un film realizzato per somigliare nella struttura, nei richiami e in molte soluzioni a esso stesso e per estensione al cinema di quell’epoca. È un’operazione nostalgia al massimo livello di sofisticazione, un’imitazione del cinema anni ‘40 che tuttavia è sempre falsa, perché per quanto possa emulare la pellicola con il digitale, usare le librerie di suoni dell’epoca, inquadrature dell’epoca, musiche d’epoca e luci dell’epoca, il film è pieno di dettagli, soluzioni, scrittura o anche solo recitazione modernissime che lo rendono una citazione gonfiata a film più che una vera imitazione del cinema anni ‘40.
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C‘è un’elezione influenzata dai media, c’è un lento crescere di un sentimento di odio profondo perché motivato e c’è (elemento più interessante di tutti) una donna che ci va di mezzo con una grazia e con una consapevolezza spiazzanti. Quel rapporto tra Mankiewicz e Marion Davies è l’unico momento in cui Fincher si spinge con successo in un territorio per lui inesplorato, trovando qualcosa di memorabile. Lì lavora in antitesi a Quarto potere, contraddicendolo, cambiando un suo personaggio per svicolare i cliché (la donna bella e scema dell'uomo potente) così da sorprendere e arrivare un po' più lontano del solito, fino addirittura a scardinare qualche convinzione del pubblico.
Al contrario l'infinità di citazioni, anche visive, da Quarto potere, risultano un po’ pedisseque e superflue. Questo film non ha niente a che vedere con quello di Welles, non è l’indagine su un uomo grande, che il tempo e il sistema hanno svuotato di ogni ideale come modo per criticare un paese che ne consente l’ascesa, ma semmai la storia di un uomo piccolissimo che ha fatto qualcosa di grande subendo pressioni e venendo continuamente sballottato dalla storia, uno incapace di guidarla. Mankiewicz qui è un sottoprodotto di Hollywood che, come Rocky, per una volta nella vita ha deciso di combinare qualcosa di vero e significativo, ed è disposto a distruggersi per rimanere in piedi fino all'ultima ripresa.
I suoi pregi maggiori il film di Fincher li comprime quindi tutti nel finale, dopo una parte centrale un po’ faticosa (e forse un minutaggio eccessivo), quando l’interpretazione di Gary Oldman su cui tutto poggia arriva al suo zenith. Lì davvero Fincher trova il suo Mank, cioè la concentrazione esplosiva ed inspiegabile a parole (ma perfetta in un film) di un desiderio bruciante di autodistruzione e giustizia, misto ad una vendetta personale. La dedizione di un uomo che non si era mai dedicato davvero. Il cinema descrive queste passioni in contesti sempre fiammeggianti ma il miracolo originale di Mank è di trovarle invece in un buen ritiro isolato e silenzioso, trasformando la quiete desertica nell’unica possibile temperie creativa.
Sei d'accordo con la nostra recensione di Mank? Scrivicelo nei commenti dopo aver visto il film, disponibile su Netflix dal 4 dicembre. Ne parliamo anche sul nostro canale Twitch!