La vita davanti a sé, la recensione

Senza nessuna forma di adattamento alla modernità, La vita davanti a sé, è adattato con il massimo della pigrizia e risulta fuori dal tempo

Critico e giornalista cinematografico


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Non c’è niente in La vita davanti a sé che faccia qualcosa per asciugare un racconto molto datato. La storia di madame Rosa, scritta da Romain Gary nel 1975 nell’omonimo romanzo, è una di sopravvissuti all’Olocausto, un melodramma tra una signora anziana e un bambino a tinte fortissime che non risparmia colpi bassi ma che nasceva in un’epoca in cui ancora questo tipo di racconti facevano parte della dieta culturale popolare.

Il film di Edoardo Ponti (il secondo tratto da quel romanzo, il terzo con sua madre protagonista su 7 totali, corti inclusi) è più o meno sulla stessa linea d’onda, un viaggio indietro nel tempo a un’altra epoca che non ha nessun fascino vintage né alcuna consapevolezza di essere retrodatato rispetto al presente.

In sé, ovviamente, non ci sarebbe nulla di male. Non ci sarebbe cioè nulla di male in un film che recuperi un testo che viene da un’altra epoca della narrativa e riporti nel presente qualcosa che il cinema ha smesso di fare da tempo, peraltro con un’interprete (Sophia Loren) che viene proprio da quell’altro tempo.

La vita davanti a sé però non è niente di tutto ciò, non è un’operazione di attualizzazione di dinamiche e stili di un’altra era del cinema come poteva essere La La Land, né un calco d’epoca cinefilo come Intrigo a Berlino, né semplicemente un film ispirato al gran cinema anni ‘70 come fa Tarantino. La vita davanti a sé ha semmai il sapore del calco pedissequo di un testo e di finalità che il cinema si è lasciato dietro di sé, perché la società se l’è lasciate dietro di sé, senza la minima riflessione né su quel testo lì, né sulle immagini generate. Insomma, l’adattamento più scontato e fuori dal tempo possibile.

È il ruolo della protagonista, madame Rosa, la donna passata per l’olocausto che dopo una vita di prostituzione ospita in casa e si occupa crescere bambini orfani a essere una bomba kitsch che il film gestisce in modi maldestri, cavalcando il binomio madre/prostituta come se non fosse stato quasi l’unico asse sul quale il cinema italiano ha dipinto le donne per 60 anni e più. E così, una volta presentati i personaggi, La vita davanti a sé non riesce mai a trovare il modo di rendere dinamico uno storytelling asfittico che non risparmia nessuna bassezza andando dritto al suo obiettivo: commuovere, commuovere, commuovere.
Raramente un obiettivo così palese e così ricercato è stato perseguito in modo così elementare.

L’unico cambio che sembrava promettere era quello di location, non un quartiere multietnico di Belleville ma la Bari multirazziale, tuttavia (di nuovo) è solo un calco. Aver spostato la storia altrove non incide minimamente sul senso, sulle interazioni o sulle identità dei personaggi. Incide solo sull’accento.

Quel che si comprende vedendo La vita davanti a sé è solo il potere del divismo di Sophia Loren, in teoria tramontato ma nella pratica sempre pronto a riaccendersi. A mano a mano che avanza questo film di anziani che fanno gli anziani (e messa in scena e scrittura peggiorano il tutto indugiando su di loro con una condiscendenza programmatica, fastidiosa e agiografica), il protagonista è sempre meno il bambino e sempre più lei, madame Rosa. Anche nei momenti più tragici tutta l'attenzione è su di lei, finendo così inevitabilmente per spostare l’asse del racconto sulla parte meno dinamica della storia. E per quanto rimanga impressionante la capacità di Sophia Loren di riempire il fotogramma anche facendo poco, anche con l’ordinario, non è comunque sufficiente a mettere in pista un film che punta tutto su di lei ma sembra non averglielo detto.

Sei d'accordo con la nostra recensione di La vita davanti a sé? Scrivicelo nei commenti dopo aver visto il film su Netflix a partire dal 13 novembre

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