Woody Allen ci parla di Rifkin's Festival e la sua carriera: "Nei film serve che le cose vadano male"

Un'intervista a Woody Allen non è mai semplice. È gentile, sereno e sorridente ma sa eludere le risposte più

Critico e giornalista cinematografico


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Woody Allen è elusivo. Non è semplice ottenere da lui una risposta concreta. Un po’ per una naturale ritrosia a parlare di sé nelle interviste che lo accompagna da sempre (anche i saggi-intervista più famosi a lui dedicati faticano) e inoltre perché non è difficile immaginare che le traversie della sua vita privata abbiano creato un rapporto poco schietto con la stampa.
Ad oggi, quando si presenta in videoconferenza da un salottino all’americana, Woody Allen è un sereno signore anziano, molto cordiale e gentile, sorridente quando è il caso e sempre incline a spendersi in ogni risposta, solo che è molto bravo a girare intorno alle domande.

Lo abbiamo intervistato assieme ad un pugno di altri giornalisti italiani per Rifkin’s Festival film co-prodotto dall’italiana Wildside che esce in sala il 6 Maggio distribuito da Vision.
La storia è quella di un professore di cinema che accompagna la moglie che di lavoro fa l’ufficio stampa al festival di San Sebastian e lì tra sogni di vecchi film e una nuova fiamma sembra poter cambiare vita.

Nei suoi film classici il cambiamento nelle vite dei protagonisti è spesso faticoso e doloroso, è un evento nefasto. Invece in quelli che girati in Europa (a parte quelli inglesi) ci sono spesso personaggi stranieri che arrivano in una città e per effetto di essa cominciano a cambiare con facilità, gioia e riscoprendo le emozioni. È possibile diventare migliori ovunque tranne che a Manhattan?

“Non lo so se sia completamente vero, se guardi Un giorno di pioggia a New York c’è un finale buono. Più in generale è vero che perché il pubblico si interessi ad un film serve sempre che le cose vadano male, un conflitto, vedere l’arrivo di problemi e come vengono risolti. Vivendo io a Manhattan immagino ci sia una certa quantità di emozioni per me naturali, invece in una città straniera mi sento più libero, sono in vacanza e vivo in un hotel. Mi godo i piaceri di queste città e forse questo si riflette nel contenuto dei film”.

I suoi film godono sempre di un lavoro pazzesco sulle location, e se per Manhattan immagino che siano luoghi che conosce, come funziona per le altre città? Dei molti luoghi possibili che visita come sceglie quali utilizzare per comporre l’immagine di quella città che uscirà dal film? È un lavoro di scouting molto lungo?

“Non è un lavoro difficile perché scelgo città che conosco e so essere fotogeniche. So già che con Roma, Parigi, Barcellona o Londra avrò una bella città. San Sebastian è meno nota ma sono stato al festival e ho visto che bel posto sia. Così quando mi hanno proposto di girare in Spagna ho pensato sarebbe stato bello girare lì. Tutto sommato è facile, passiamo qualche settimana in loco, prima con un art director che fa il suo giro e poi arrivo io. Lui mi porta in una mezza dozzina di posti per ogni scena e così scegliamo il migliore. È il bello di girare in città straniere: fare il tour delle location. Davvero non è difficile”.

Lungo la sua carriera ha avuto diverse collaborazioni durature e importanti con grandi direttori della fotografia. Ogni volta la nuova collaborazione ha cambiato il suo modo di fare film. È poi anche noto il suo amore per il cinema italiano. Allora come mai ci ha messo così tanto ad incontrare Vittorio Storaro? Avevate già tentato di lavorare insieme in passato?

“Ho sempre saputo che grande direttore della fotografia sia. Però ho lavorato per 10 anni con Gordon Willis, poi altri 10 anni con Carlo Di Palma e poi ancora con Sven Nykvist e altri grandi. Ogni volta che volevo cambiare direttore della fotografia Vittorio era impegnato. Finalmente pochi anni fa quando ho provato a cercarlo era libero. Allora l’ho chiamato e ci siamo incontrati. Abbiamo fatto diversi film insieme da allora e ogni qualvolta ne ho la possibilità gli offro di lavorare con me. Lui se non ha altro da fare accetta”.

Woody Allen Storaro

Variety ha recentemente scritto che non farà mai più un film in America. Pensa sia vero?

“A me piacerebbe farne ma recentemente i miei finanziatori sono stati più che altro europei, e di solito vogliono che io faccia film nel loro paese. Inoltre a me piace viaggiare con tutta la famiglia, traslocare per qualche mese, non solo qualche giorno, quindi davvero immergermi nella cultura locale. Ma certo se ci fosse un finanziatore che volesse farmi fare un film in America lo farei sicuramente. Ad esempio ho fatto Un giorno di pioggia a New York proprio con Storaro perché qualcuno ci ha messo i soldi. È chi finanzia a determinare dove faremo il film”.

Rifkin’s Festival uscirà mai in America?

“Sì ci è stata offerta una distribuzione. Tutti i miei film sono usciti in sala in America, Un giorno di pioggia a New York è stato un buon successo anche se come tutti ormai è stato per poco tempo in sala, ma ora è su Amazon e diverse altre piattaforme. Rifkin’s Festival avrà una distribuzione e poi sicuramente andrà in streaming in tv. Non è dei miei film che mi preoccupo, ma semmai che la gente si abitui a stare in casa e non vada a vedere i film in sala a prescindere da chi li dirige”.

[Un giorno di pioggia a New York secondo Indiewire è uscito in 6 sale in tutti gli Stati Uniti incassando nel weekend di apertura 2.744 dollari, circa 457€ di media per schermo. Nel resto del mondo invece ha incassato 22 milioni di dollari]

Di cosa è soddisfatto e di cosa no ripensando alla sua carriera?

“Sono soddisfatto del fatto di poter dire che ogni volta che provo a fare un film dò il mio meglio, non ho mai dato meno del massimo, mi sono sempre fatto in 4 per ogni film, ho sofferto e gli ho dato tutta la mia attenzione. Ma quello di cui mi dispiaccio è che in tutta la mia vita da cineasta ho avuto una libertà artistica che molti non hanno potuto avere, ho potuto fare quanti film volevo, come volevo con gli attori che volevo e con tutta questa libertà non ho mai fatto un grande film”.

Come mai però a molti piacciono? Sbagliano?

“No io credo semplicemente che se prendessi i miei migliori film e li mettessi accanto a 8 e mezzo o Rashomon o Il settimo sigillo emergerebbe una netta differenza. Parlando in assoluto penso di avere fatto dei buoni film ma non dei grandi film, dove per grandi film intendo Il posto delle fragole o I 400 colpi. Credo chiunque mettendo a paragone i miei migliori film con questi direbbe che non sono all’altezza. E avrebbe ragione!”.

rifkin's festival 2Parla spesso di Dio nei suoi film cosa gli direbbe se lo avesse ora di fronte?

“Gli direi: “Come hai potuto fare quel che hai fatto?!?” Sarei davvero molto critico e scortese. Non penso che andremmo d’accordo”.

Come vede il futuro della sala?

“Sono pessimista, perché già prima della pandemia in America i cinema stavano chiudendo uno dopo l’altro. Il pubblico preferisce guardare film in casa, gli schermi sono diventati più grandi, le immagini migliori e il suono anche. La gente ha capito di poter avere ogni film che desidera premendo un bottone, senza il fastidio del resto del pubblico che mangia o rumoreggia. Poi la pandemia ha obbligato tutti a questa realtà, a stare in casa. Ma io penso che i film vadano visti con altre persone. Tante. È in sala che si vede Il padrino, Quarto potere e Via col vento, non in salotto e non sul tuo portatile. Quello domestico è un modo facile di vedere quel che vuoi a poco. Già prima della pandemia gli studios spingevano i registi a mandare i loro film direttamente in tv o fare giusto 3 settimane in sala e poi di corsa in streaming. Tutto questo non rende felice me e molti altri registi. Non so se esistano modi per combatterlo. Credo che la gente non dovrebbe tornare in sala se non gli piace, ma penso anche che se ci tornasse gli piacerebbe. Ragazzi cresciuti vedendo i film sul portatile sono abituati e va bene, ma sono certo che se vedessero un bel film al cinema gli piacerebbe di più”.

Quali sono le domande che vale la pena continuare a farsi?

“Quelle esistenziali, quelle che non hanno una risposta, è un paradosso ma penso sia vero. Tutte le altre tipo quelle su questioni sociali o problemi di politica o ancora riguardo relazioni interpersonali possono avere una risposta ma solo quelle esistenziali sono interessanti. Sono quelle su cui vale la pena interrogarsi, anche se alla fine non avrai mai soddisfazione e ti rimarranno solo ansie e tristezze molto umane”.

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