Venezia 75 - 22 Luglio, il nostro incontro con Paul Greengrass e i protagonisti
Il nostro incontro con il regista e alcuni protagonisti di 22 July, il film sulla strage di Utøya in uscita a ottobre su Netflix
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PAUL GREENGRASS
Hai visto Utoya, l'altro film dedicato alla tragedia norvegese? Come hai sviluppato il tuo progetto?No, non l'ho visto. Volevo fare il mio film senza condizionamenti e così ho preferito non vederlo. Quando ho deciso di fare il film ho dovuto riflettere su come farlo: volevo fosse un film su come la Norvegia ha lottato per la sua democrazia, un film su quel che accadde dopo gli attacchi. Quella era la storia che volevo raccontare perché mi pare importante farlo in un momento in cui l’estrema destra sta crescendo nell’occidente. Penso sia rilevante, oggi come oggi, osservare come una nazione lotta per la sua democrazia.
Il problema era: come farlo senza parlare norvegese? Alla fine ho sentito che volevo portare la storia norvegese nel mondo, e sono stato avvantaggiato dal fatto che la Norvegia è una società bilingue, quindi sono abituati a parlare in inglese. Abbiamo lavorato con una troupe e un cast norvegesi, in Norvegia, ed è anche per questo che si parla in inglese: il film ha comunque una forte identità norvegese, nel senso che il cast non ha un accento norvegese, sono abituati a parlare in inglese.
Ovviamente per realizzare questo film abbiamo dovuto chiedere dei permessi speciali: abbiamo contrattato il gruppo di supporto alle famiglie che rappresenta le famiglie delle vittime. Da loro non abbiamo ricevuto alcun endorsement, ma un permesso.
Hanno visto il film?
L'abbiamo mostrato al gruppo di supporto che li rappresenta quasi tutti, l’ha visto prima il board e poi quelli raffigurati nel film. Poi faremo delle proiezioni speciali. Mi hanno detto che avrei trovato tante opinioni diverse su questo film quante persone esistono in Norvegia.
Sappiamo tutti che l'estrema destra sta crescendo un po' in tutti i paesi europei e negli USA. Cosa ne pensi?
Un film come il mio è parte dell’elaborazione e della costruzoine di senso sull’evento, per questo era importante farlo nella maniera giusta. Ho pensato che fosse necessario includere il "villain": so che in questo modo gli avremmo dato visibilità, ma la sua presenza serve a raccontare meglio la lotta per la democrazia. La domanda è se, raccontando questa retorica, non peggiori la situazione o se invece sia peggio ignorarlo. Ma credo che nella società di oggi il pericolo sia ignorare e fare finta che non ci sia un problema. Non possiamo chiudere gli occhi o i cinema davanti a questo, fare finta che non esista, dobbiamo combattere sul piano delle idee, ed è quello che fanno queste persone nel film, loro lottano Breivik sul piano delle idee. Mostriamo due giovani che tetimoniano ma ce ne sono stati tanti a testimoniare presentando tante idee contrapposte. E dopo il 1999 credo che abbiamo dimenticato che il nostro stile di vita democratico va difeso sul piano delle idee. Quando ho letto la difesa di Breivik in tribunale ho capito che avrei fatto questo film: mi ha colpito moltissimo come la sua retorica, la retorica che utilizzò nella sua difesa, oggi come oggi sia diventata mainstream. Per me il pericolo non è mostrare la retorica, è non mostrarla, ed è quello che pensano anche le vittime di Breivik.
Hai incontrato Viljar?
Sì, parecchie volte, è una gran persona, così tanti ricordano la sua comparsa in tribunale, uno dei pochi momenti in cui la compostezza superficiale di Breivik è stata compromessa e scossa. Mi ha colpito perché è la storia di un sopravvissuto, ma anche la storia della sua famiglia è particolare Molti in quell’evento hanno una storia simile, in questo senso è universale, ma penso che la sua possa ispirare a essere forti e coerenti con le proprie idee. Viljar è stato capace di confrontare quell'uomo, dimostrandosi migliore di lui, affermando una superiore morale quanto a ideali e modo di guardare il mondo.
ANDERS DANIELSEN LIE (Anders Behring Breivik), JON ØIGARDEN (il suo avvocato difensore Geir Lippestad)
Lie: Prima di tutto vorrei dire che ognuno ha un approccio diverso nei confronti della recitazione. Io non credo si debba stare nella testa dei personaggi, non serve diventare loro, in questo caso è stato importante per noi perché è ancora un mistero come Breivik sia riuscito a fare quello che ha fatto. Il mio approccio quindi è stato recitare l'atteggiamento più che codificarne la psicologia: l'ho studiato in tante situazioni e ho provato a replicare il suo atteggiamento.
L'hai mai incontrato?
Non l’ho mai incontrato ma ci ho pensato. Ho pensato che molte persone l’avrebbero considerato offensivo, anche se il mio lavoro era offrire un ritratto realistico, quindi avrei tratto giovamento dal ricevere maggiori informazioni. Allora ho provato a chiedere un incontro ma ha rifiutato.
Che gli avresti chiesto?
No comment.
Come hanno reagito le persone vicino a te quando hai accettato la parte?
Ne ho parlato con famiglia e amici ma alla fine è stata una mia scelta, e penso che i miei cari si fidino di me: non accetterei mai un ruolo se non credessi nel progetto. Mi sembrava un film importante, fatto per ricordare le vittime e chi è morto ma anche domandarsi perché è successo, perché sono morti? Anche perchè è stato uno degli attacchi più politici e meno casuali degli ultimi anni. Bisogna fare attenzione alla retorica del terrorista, perché un benestante abbia ucciso tutte quelle persone, è una domanda scomoda ma è un dovere porla.
Come hai costruito il personaggio?
Paul voleva un ritratto con delle sfumature: Breivik è un prodotto sfortunato di personalità, biografia e radicalizzazione più qualcosa che non conosciamo. Non cercherei mai di comprendere o amare i personaggi che interpreto, mi interessa solo la realtà. Nella vita sono un dottore e il mio metodo di lavoro è avere ipotesi in testa e cerare prove per confermarle o smentirle, devo vivere con l’idea che non avrò tutte le risposte, mi interessa solo un ritratto il più vero possibile e se poi ne esce come un mostro o un freak o un matto non mi interessa, mi interessa se è un ritratto veritiero o meno.
Hai incontrato l'avvocato Lippestad?
Øigarden: Sì, ho parlato con l’avvocato per capire molte cose. Di certo lui ha dovuto fare il suo lavoro e specialmente in questo caso era importante capire cosa rispondesse alla domanda “Come hai potuto difenderlo?” Per far funzionare la democrazia anche persone come Breivik hanno diritto a una difesa.
Lie: Anche io ho parlato con l’avvocato e le informazioni che ci ha dato sono state importanti perché per molte delle nostre scene non avevamo trascrizioni o fonti affidabili, quindi lui ci ha fornito molti dettagli. Lippestad e Breivik hanno parlato tantissimo e alle volte erano anche molto cortesi.
È vero che non gli ha stretto la mano all’ultimo incontro?
Øigarden: No, non credo sia una scena avvenuta realmente, perché lui dicceva che era molto importante mostrare rispetto anche nei confronti del killer e quindi stringergli la mano.
Lie: Bisognava capire come rispettare ciò che è successo e tutto quello che vedi nel film, tutti i comportamenti sono quelli che puoi trovare nei materiali cui hanno accesso in pochi. Penso che ci siamo avvicinati alla verità, penso che se vogliamo capire quali sono i fattori di rischio per il radicalizzarsi, dobbiamo scoprire come sono fatte queste persone, che è diverso dal dargli il microfono. Il punto è che quest’uomo non è clinicamente pazzo, quindi va processato. Breivik era d'accordo su questo punto, cosa molto ironica.
Ecco la sinossi:
Paul Greengrass (CAPTAIN PHILLIPS – ATTACCO IN MARE APERTO, UNITED 93) racconta la vera storia e le conseguenze del peggior attacco terroristico mai avvenuto in territorio norvegese. Il 22 luglio 2011, 77 persone rimasero uccise quando un estremista di destra fece detonare una bomba a Oslo, per poi aprire il fuoco contro un gruppo di adolescenti in un campo estivo. Il film segue l’esperienza fisica ed emotiva di un sopravvissuto per descrivere il percorso di guarigione e riconciliazione di un intero Paese.