Venezia 72 - Mark Ruffalo e Tom McCarthy ci parlano di Spotlight. Stanley Tucci a ruota libera

Tutta la preparazione e la scrittura dietro Spotlight, spiegata dai protagonisti. In più Stanley Tucci parla a ruota libera della sua carriera unica

Critico e giornalista cinematografico


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L’anteprima per la stampa di Il caso Spotlight è appena finita, regista e attori non erano in sala perchè si preparavano per queste interviste. C’è nervosismo nell’aria, contrariamente a quanto accade solitamente è palpabile una certa preoccupazione per l’esito della prima proiezione in assoluto del film.

Al nostro tavolo di interviste arriva per primo Tom McCarthy, al quale diciamo subito che il film è piaciuto: “Ma a voi o a tutti?” risponde con l’aria cortese di chi in realtà vuole dire: “Cosa volete che mi importi il parere di 4 persone?? Ditemi la reazione generale!” e quando gli diciamo dei grossi applausi alla fine è molto rasserenato.

Nell’intervista successiva diremo la stessa cosa a Mark Ruffalo, che pare ancora più teso ma che invece risponderà: “Bene. Molto bene” e subito dopo con aria di nuovo preoccupata: “Ma è un film sul giornalismo, voi siete condizionati e di parte, non fate testo...”.

Insomma fanno fatica a crederci ma il film è molto bello e qui a Venezia sta piacendo parecchio. Solo Stanley Tucci sembra vivere in un altro pianeta, passa da un film all’altro con la facilità con cui si cambiano i calzini ed è tranquillo, sereno e spiritoso. Potremmo passare tutto il tempo a parlare d’altro e in un certo senso lo facciamo, intavoliamo anche una conversazione che non riguarda Il caso Spotlight che trovate in coda all’articolo.

Le interviste sono avvenute tutte separatamente e una dopo l’altra. Per comodità di lettura tuttavia abbiamo accorpato le risposte.

Complimenti innanzitutto. Questa è una delle sceneggiature migliori dell’anno.

TOM MCCARTHY: “Ci abbiamo messo almeno due anni a scriverlo io e Josh Singer, più che altro per le ricerche che abbiamo fatto. Abbiamo intervistato tutti i personaggi coinvolti, siamo stati con loro, abbiamo indagato l’andamento dei fatti e l’argomento. Alcune cose non sono state facili, i reporter non amano essere intervistati. L’obiettivo però era avere quanti più punti di vista è possibile sugli eventi e soprattutto capire il contesto cioè la vita a Boston in quel periodo”.

Qual era l’idea prima di partire, cosa volevate raccontare, i fatti o le persone?

TM: “La cosa difficile è che la storia è immensa e dovevamo avere sia i fatti riportati per bene che uno spirito coinvolgente, altrimenti il film diventa un procedural. Non è semplice per niente ma su quello abbiamo lavorato soprattutto al montaggio”.

Quindi è tutto aderente ai fatti veri e la finzione è limitata al minimo? Intendo dire: è anche vera la scoperta finale di come mai il giornale non avesse mai indagato in passato su questi argomenti?

TM: “Si esatto anche quella è vera”.

E con i veri protagonisti come vi siete regolati?

TM: “Abbiamo passato molto tempo con loro, in molti casi abbiamo usato proprio le loro parole nella sceneggiatura. Dovevamo decidere se imitarli o prendere solo spunto alla lontana da loro e alla fine abbiamo optato per essere davvero onesti e vicini alla realtà, di riportarli più o meno per come sono. In ogni momento abbiamo scritto quello che davvero credevamo avrebbero potuto dire.
E gli attori anche hanno fatto un lavoro di mimesi fantastico. Pensa che Marty [il direttore del giornale interpretato da Liev Schreiber ndr] è reso così alla perfezione che quando gli ho fatto vedere il film a lui e ad un suo amico, l’amico ha detto che in fondo non gli somigliava tanto, perchè lui è più caloroso, mentre Marty lo ha corretto, spiegando che invece lui era proprio così nel periodo in cui era arrivato al Boston Globe, perchè fu una transizione non facile.
Ma anche Mark [Ruffalo ndr] ha ripreso perfettamente i movimenti di Michael Rezendes, sempre secco e così determinato. Rachel [MacAdams ndr] invece è riuscita a catturare benissimo la costanza della sua parte, con quelle domande che possono anche sfinirti”.

STANLEY TUCCI: “Io non ho incontrato la vera persona che avrei dovuto interpretare. Me l’hanno sconsigliato perchè è un tipo strano e a me è stato bene così. Ma ho visto le conferenze stampa in cui parla e così avevo tutto quello che mi serviva, anche per capire l’accento”.

MARK RUFFALO: “Ho passato tanto tempo con Rezendes. Ho giocato a carte scoperte con lui e spero di averlo mostrato per com’è. Abbiamo mangiato insieme passato ore al telefono a parlare, a tratti mi sembrava di fare il giornalista per le domande che gli facevo e come lo studiavo”.

Volevi essere uguale a lui proprio?

MR: “Secondo me era il caso di onorare il tema del film ed essere onesti. Del resto nella scuola di recitazione che ho frequentato il mio insegnante mi diceva sempre che bisogna conoscere la politica, il tempo, la musica e la cultura che stanno dietro la sceneggiatura, cosa indossavano e cosa pensavano del tempo. E questo per ogni personaggio che prepari. Se ci aggiungi che da attore giovane, per questo motivo, ho passato più tempo in biblioteca che sul palco, capisci che non ho fatto una vita troppo diversa dai giornalisti”.

Ok. Ma alla fine come fai a essere certo di non stare “imitando” e di stare invece “recitando”? Dove sta il confine?

MR: “Il punto è che non devi essere morto, non devi essere una replica. Quando hai imparato ad imitarlo devi buttare tutto quel che sai per mantenere la spontaneità e la meraviglia, farti commuovere internamente. Interpretare persone vere è una grande sfida”.

Cosa ti ha colpito dell’atteggiamento di Rezendes?

MR: “Come parla. In generale le persone sono come parlano, sentendo come parlano capisci molto di quello che sono davvero e Michael ha un modo di parlare veloce e denso. Nel suo corpo c’è sempre una tensione, specie nella parte bassa, dalla vita in giù sta sempre teso e crea come dei piccoli movimenti. Anche la maniera in cui ascolta è particolare o l'atteggiamento che ha verso il giornale: si percepisce come un outsider è quasi paranoico e quando ascolta le persone se ne sta da una parte. Inoltre quando qualcun altro parla fa sempre “U-hu… Molto bene…. Capisco…” ed è molto comprensivo così che la gente si apra al massimo”.

Questo è il film che Michael Keaton ha girato dopo Birdman e quindi dopo la sua rinascita. Di nuovo è un’interpretazione pazzesca, l’avevi visto lì e poi voluto?

TM: “In realtà io l’avevo scelto prima e proprio per questo andai a vedere Birdman. A metà film sono dovuto andare via perchè dovevo prendere un aereo per un meeting per Spotlight ma ero estasiato. Pensa che io me lo ricordavo in Cronisti d’assalto e quando ne parlai a Robby Robertson, ovvero il giornalista che Michael avrebbe dovuto interpretare, lui mi confessò che Cronisti d’assalto era il suo film preferito in assoluto. Incredibile”.

Un lavoro incredibile di scrittura ma avete anche filmato di conseguenza. La scene sono di un controllato che impressiona, questo film ha i tempi moderni ma la pacatezza del cinema classico...

TM: “Ha un approccio non sensazionalista, per questo abbiamo scelto l’uso di una camera non intrusiva, per non romanticizzare e non esagerare o enfatizzare niente. Volendolo o no abbiamo seguito le orme dei reporter, la maniera in cui hanno lavorato. Del resto anche noi dovevamo presentare dei fatti che di loro hanno un impatto così forte da funzionare anche da soli”.

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L’intervista sarebbe finita qui ma è impossibile non riportare anche la conversazione avuta con Stanley Tucci. Con lui, a differenza degli altri, non si è parlato molto del film, l’intervista è scivolata spontaneamente sulla sua carriera e le sue peculiarietà come attore.

Si tratta forse del più grande attore comprimario oggi in attività e con molta probabilità tra i più grandi mai esistiti. Ha collezionato un’infinità di piccole parti che in molti casi reggono da sole interi film anche comparendo in pochissimi minuti. È un attore gigantesco e ogni volta che gli viene concesso un po’ più di spazio lo dimostra (The Terminal, Julie and Julia per dirne solo due), ma è anche professionalmente fuori da ogni schema, praticamente mai stato protagonista eppure determinante.

Pensi di essere arrivato ad un livello per il quale Stanley Tucci sia un nome che basta a garantire lavoro?

ST: “Guarda io non mi sento mai tranquillo lavorativamente. Mai. Ho sempre paura, del resto nessuno dovrebbe sentirsi al sicuro in questo business, i gusti cambiano sempre e non sai mai cosa accade”.

Con le star spesso si parla di come scelgano i loro film e loro dicono sempre che bisogna fare un po’ di blockbuster per il nome e poi un po’ di film indie per te stesso. Ma per te come funziona? Per uno specialista di comprimari è la stessa cosa, devi alternare grande e piccolo?

ST: “No, non è la stessa cosa. Considera che dopo che feci Il diavolo veste Prada, che fu un successo incredibile, non riuscivo a trovare altri lavori, il telefono non suonava più e non ho mai capito perchè. Specie se hai una famiglia da mantenere le paure ti vengono ma dall’altra parte devi essere cauto e non accettare proprio tutto. Fare un film come Transformers mi ha divertito tantissimo ma il mio cuore batte per il cinema indipendente. Sicuramente oggi posso essere più schizzinoso, tanto che dirigerò un mio film quest’anno, operazione dalla quale di certo andrò in perdita e per riparare o prima o dopo dovrò fare qualcosa che mi consenta di guadagnare molto bene

Di che si tratta?

ST: “È un film su Alberto Giacometti, lo scultore. Sono anni che cerco di farlo adattando la sua biografia ufficiale, un libro che ho portato sempre con me per anni. Sono semplici conversazioni in un periodo di due settimane, spazia dalla moglie, all’amante ai rapporti con il fratello…. Considero Giacometti uno degli artisti fondamentali del secolo, le sue visioni sul processo creativo sono molto articolate e del resto io sono ossessionato dal processo creativo”.

Lo interpreterai tu?

ST: “No sarà Geoffrey Rush

Come ci si specializza in piccoli ruoli? Ci sono trucchi per raggiungere in poche battute e poche scene la medesima profondità che gli attori protagonisti raggiungono con molto più tempo a disposizione?

ST: “No, non esistono trucchi, devi essere molto sincero, non devi voler emergere o farti vedere, se il carattere del personaggio è sommesso devi fare quello, è questa l’onestà. E devi relazionarti bene al tono del film. Devo dire comunque che lavorare per poco tempo è piacevole. Alle volte lavoro una settimana sola per un film, per Margin Call addirittura ho lavorato solo tre giorni che è un bene. Posso andare subito a casa e stare con la mia famiglia o fare cose come un libro di cucina”.

Ho capito che sei il tipo che interpreta e non si guarda indietro, non ripensa a ciò che è passato e affronta il lavoro con una certa leggerezza. Senza dargli troppa importanza. C’è però un personaggio che non sei riuscito ad affrontare con questo disincanto?

ST: “Il ruolo in Amabili Resti. L’argomento lo rendeva complicato e duro, ti devi immerge in una personalità terribile e rimanere con lui tutto il giorno. Per fortuna c’era molto trucco, quando alla fine te lo levi lui se ne va con quello. Le riprese sono durate 5 mesi e stare 5 mesi con quella persona orribile tutto il tempo è stato tremendo”.

Potessi scegliere preferiresti che ti venissero offerti più ruoli da protagonista?

ST: “Ovviamente! Che domande?!?

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