Umberto Contarello: "Le serie tv piacciono perchè sono romanzi simili all'Odissea, la digressione è il cuore"

L'ultima parte della nostra intervista fiume al grande sceneggiatore Umberto Contarello in occasione del Roma Fiction Fest

Critico e giornalista cinematografico


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Se i film e la serie tv di Paolo Sorrentino, specie gli ultimi, non vi piacciono, vi annoiano e li trovate stucchevoli, probabilmente è anche con Umberto Contarello che dovete prendervela. Se invece li trovate pazzeschi e innovativi, la frontiera del racconto moderno, lo stesso è anche a Umberto Contarello che dovete andare a bussare. In entrambi i casi il motivo per il quale film come This Must Be The Place o La Grande Bellezza oppure la serie The Young Pope generano reazioni così estreme, sta nella maniera in cui Sorrentino e Contarello desiderino muoversi lontano dal racconto classico.

Durante una lunga conversazione con Contarello in occasione del Roma Fiction Fest, nel quale era giurato, abbiamo conversato anche su come mai le serie tv siano diventate parte della dieta mediatica di tutti, e lo stesso sceneggiatore ha attribuito molto di questo cambiamento al mutamento dello storytelling contemporaneo.

Il pubblico ha cambiato dieta, e al posto dei film vede molte serie tv. È così anche per chi come lei queste opere le scrive?

Il punto è che quel che vediamo non ha più a che vedere con le serie tv. Penso proprio che la parola “serie” sia morta, che non definisca più nulla come spesso capita alle parole.
Il motivo per cui non mi piacevano le serie una volta era perché il loro elemento distintivo era per me mortifero, parlo del fatto che ci fosse una continua e prevedibile vita e morte che ricominciava ad ogni puntata. Per questo la parola serie era corretta, perché identificava dei moduli in qualche modo strutturati internamente allo stesso modo, il cui ciclo di vita non mi interessava. Per questo credo tanti colleghi della mia generazione non sopportassero le serie, non per snobismo ma per il loro respiro corto e affannoso.

Cos’è cambiato allora?

È successo che l’industria creativa più importante al mondo, quella americana, ha intercettato un desiderio o meglio una sensazione di stanchezza nella relazione tra i cineasti e l’oggetto-film. I grandi cineasti ad un certo punto hanno capito che la durata dei film gli stava stretta. Dunque ciò che non si sopportava della serie si è cominciato a percepire in questa fatica di contenere la ricchezza di idee che uno poteva avere dentro la durata naturale di un film. Ci sono film che sono la traccia (a posteriori) di questo sgomitare. Come Casinò di Scorsese, che mostra benissimo il proprio titanismo, perché cerca di costringere dentro ad un tempo innaturale un tempo reale molto più lungo e molto più complesso e molto più misterioso. Dunque oggi guardo molti più racconti televisivi di una volta perché non esistono più le serie ma solo film lunghi. Se in ogni città ci fossero cinema che proiettano film di 10 ore, allora ci sarebbero anche appassionati che si recherebbero con panini e bibite a vederli. Anche addormentandosi un po’ in mezzo. Perché come sono sempre esistiti appassionati di racconti, sono anche sempre esistiti appassionati di romanzi. E i romanzi migliori sono quelli che ti fanno affrettare il passo per tornare a casa a trovarlo. Ora le puntate sono praticamente capitoli di un romanzo e il romanzo si muove secondo coordinate molto più libere.

Intende dire che le serie tv raccontano le loro storie con il piglio e il respiro dei romanzi?

Sì ma anche che hanno quella qualità che differenzia i romanzi, ed è la stessa che tutti i narratori ei cineasti di qualità adorano fare: rompere la catena causa-effetto. Ogni racconto buono per un film è la narrazione di una continua catena di causa ed effetto tra sentimenti e fatti, invece la vita non funziona affatto con questa regola, funziona semmai come un’infinita e lunga digressione. Il romanzo come il racconto televisivo moderno, non solo la permette, ma fa della digressione il suo tratto distintivo, dando la sensazione che quella storia assomigli al disordine e all’insensatezza che ha l’esistenza oggi. Nei racconti televisivi lunghi che hanno queste caratteristiche non tutte le digressioni sono funzionali alla dinamica del racconto, cioè non tutte sono utili. E l’uscita dall’”utilità” come categoria distintiva e anche obbligata per la qualità di un racconto di un film, come di una serie, è stata come un’evasione di massa da una prigione che imbrigliava molte qualità nascoste di molti talenti. Per questo gli autori importanti sparsi nel mondo scelgono e amano in questo momento misurarsi non solo con ciò che serve al racconto, ma anche con ciò che è misterioso, forse inutile, solamente bello o anche solamente curioso, di una vicenda. Ci sono cose in una vicenda che non servono e sono meravigliose e questo è il vero lusso che ti permette il racconto televisivo.

Dovessi tirare ad indovinare a questo punto direi che lei, tra le serie, è un appassionato di Mad Men e dei Soprano….

Evidentemente. La rottura è stata Mad Men. Almeno per i racconti televisivi che ho visto io, che non sono un tossico 30enne che si scarica continuamente di tutto. Perché in quella serie era particolarmente evidente questa caratteristica, cioè che non tutti i pezzi sono utili all’economia del racconto, conteneva un’idea dal mio punto di vista mai vista, cioè che una lunga storia televisiva racconti tendenzialmente un tempo di un individuo, il romanzo di uno o più individui. E poiché raccontare un individuo necessita anche di rendere conto di tutto quello che lui stesso non sa di sé ma che compie… Ognuno di noi è pieno di cose che fa per un motivo e di altre che non sa perché le fa. Bisogna sospendere l’onnipotenza del narratore, noi stessi autori possiamo non sapere perché un personaggio faccia tutto quel che fa, tocca arrendersi al fatto che i personaggi come le persone fanno cose di cui neanche loro conoscono le cause. Questa complessità io l’ho rintracciata per la prima volta in Mad Men, lì poi c’erano anche degli elementi figurativi molto importanti e molto inediti per me, cose che mi hanno fatto pensare che quello era un film lungo che avrebbe potuto girare Tom Ford. Perché è successa anche una seconda cosa, cioè che oltre alla rivoluzione narrativa è avvenuta anche un’esplosione figurativa del racconto televisivo. Si è rotta l’idea per la quale in fondo il cinema aveva il monopolio della sperimentazione e della qualità visiva. Anche questo è trasmigrato nel lungo racconto televisivo, proprio perché nei casi migliori si ragiona come se si facesse un lungo film. Dunque il pubblico è passato da cinema a tv non per ideologia, quanto perché i film che sono più interessanti oggi lavorano sulla stessa intuizione che hanno i racconti televisivi lunghi, cioè essere, quando si può, più digressivi e meno limpidi. Per questo in realtà oggi non esiste per gli autori di qualità una differenza, perché cercano di fare la stessa cosa sia quando fanno un film sia quando fanno un racconto televisivo, solo che nel primo caso è più difficile.

Evidentemente è quello che fate con Sorrentino ma lavorando così come si riesce a avvincere il pubblico? Se il racconto tradizionale stringe a sé il pubblico dandogli continuamente un po’ di informazioni sulla trama, come fanno queste grandi serie a fare lo stesso senza?

Qui ognuno ha la sua spiegazione e forse in parte è anche inspiegabile. Io credo che se noi partissimo dalla madre di tutte le storie, L’Odissea, scopriremmo che non ha un modo di raccontare ordinato. Molte vicende sono a loro volta raccontate e le parti che hanno maggior forza evocativa sono quelle digressive, quelle metaforiche. Quindi non stiamo parlando di una cosa nuovissima ma che era caduto in una sorta di oblio.

Per questo ritiene che il pubblico in fondo non lo trovi così strano?

Spiega bene Calvino nelle lezioni americane che l’arte della composizione della storia, per anni, è servita come grande medicinale per dare l’idea che le nostre esistenze abbiano un senso e che la vita non sia un grande e casuale disordine. Quando per esempio decidiamo che l’origine della nostra vita psicologica ed emotiva è identificabile in un punto, di fatto inventiamo qualcosa per calmarci. Stabilendo un’origine uno mette ordine e dà un senso a ciò che viene dopo perché dà un inizio ad un racconto di sé. Io credo che la trama intesa in questo modo, come bunker di difesa al disordine del mondo, sia adesso meno indispensabile, non si sopporta più l’artificio nella costruzione della trama, almeno nelle opere importanti. Non sto dicendo che i racconti lunghi di qualità non abbiano artifici, ma che non ne hanno di funzionali e la trama, intesa in senso classico lavora sulla proprio sua funzionalità. Non a caso si diceva “funziona” o “non funziona”, ora invece si dice “è bello” o “non è bello”. Il piacere della trama è stato sostituito dal piacere della vicenda umana e della sua prevedibilità. La trama, intesa come grande e sublime truffa per la quale io costruisco un meccanismo che ti deve portare un pochino ad essere sorpreso e un po’ a riconoscere ciò che già sai, è uno schema che si è logorato ed è sempre più difficile nasconderlo.

In che punto è accaduto secondo lei?

Posso dirti che da questo punto di vista credo l’apogeo di quest’idea neoclassica del racconto e della trama rimanga Chinatown di Polanski. La trama più neoclassica e più perfetta, inventiva, meravigliosa, funzionante e affascinante rimane quella, è la nostra Odissea, l’archetipo della trama moderna.
Dall’altra parte moltitudini di giovani critici in riviste e blog hanno scambiato la trama di I Soliti Sospetti come un esempio di intreccio meraviglioso. In realtà è un film mediocre con una trama che contiene un trucco quasi immorale per i narratori. Si chiama “bocca chiusa”, quando posso dire una cosa ma non la dico, e su quello funziona tutto il film. Invece la libertà di raccontare l’esistenza porta a diminuire il tasso di trama, perché vivere non è vivere una trama, credo che le persone siano sempre più attratte da quella zona narrativa che sta tra libertà, mistero, sorpresa e complessità, piuttosto che dalla risoluzione di un enigma.

In altre sue interviste spiegava che ama lavorare per l’appunto sulle digressioni e sempre di più sullo scrivere le immagini. Come fa a scrivere immagini se poi non è lei a girarle?

So cosa piace a Paolo perché in grandissima parte è quello che piace a me.

Ma poi quando quelle parole diventano davvero immagini gli somigliano?

Molto. Certo sono più belle perché ciò che si vede è meglio di quello che si legge. Con Paolo si scrive molto e soprattutto molto la parte visiva, poi nella sua messa in scena c’è sempre una sorpresa perché c’è un angolo da cui lui vede le cose, le distanze e le linee dell’inquadratura che spessissimo sorprende anche me. Ma vale per tutti gli autori di qualità.

Lavorando così, cercando di abbracciare il caos, come si scarta? Vi capita di sottrarre delle cose? Lo chiedo perché solitamente si scartano le cose che non servono alla trama…

Ti dirò che noi non scartiamo, mettiamo solo ciò che ci piace. Preventivamente non evitiamo di scrivere una cosa che ci piace perché pone problemi di durata, non c’è la minima autocensura iniziale sulla composizione ma solo sul bello.

Preferisce la versione lunga o quella corta di La Grande Bellezza?

Non penso sia un film in cui le due versioni sono davvero diverse. Non è I Cancelli Del Cielo. Credo solo che a chi è piaciuto trova di più di ciò che gli è piaciuto.

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