Tutto chiede salvezza: Francesco Bruni sulla serie che lui chiama film e sui registi che non lo chiamano
Dopo anni di lavoro su serialità ibrida (Montalbano) ora Tutto chiede salvezza è la prima vera serie di Francesco Bruni
Francesco Bruni ha scritto e diretto una serie per Netflix. Anche se lui preferisce chiamarla film. Tutto chiede salvezza è composta da 7 episodi di un’ora circa l’uno, uno per ogni giorno che il protagonista passa in ospedale. È tratta dal romanzo di Daniele Mencarelli e sceneggiata dallo stesso Bruni (che è head writer) con Francesco Cenni, Daniela Gambaro e lo stesso Mencarelli.
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Perché preferisci chiamarlo film?
“Mah perché un po’ mi pare abbia la compiutezza dei film e non quei meccanismi seriali per i quali ogni puntata è come se si chiudesse”.
“Beh forse quelle più di altre, perché Netflix mi ha chiesto di partire molto forte. Però ecco non c’è tanto quell’idea che ogni puntata è un po’ compiuta in sé e poi mi piacerebbe che il pubblico la guardasse tutta insieme come un film”.
Tuttavia gli espedienti di scrittura della serialità ci sono tutti, ogni puntata è uno dei 7 giorni che il protagonista passa in ospedale e c’è un mistero da scoprire…
“Anche questo è vero più che altro all’inizio. Sempre per partire con un pilota molto forte ci abbiamo messo tutta l’indagine per scoprire cosa sia successo a ritroso. Comunque anche se non ho grande confidenza con la serialità c’era tutto un team, quello di Netflix, intorno a me molto forte e molto presente”.
Davvero? Devo dire che sei il primo che me lo dice, solitamente è il contrario, dicono tutti che Netflix è come se non ci fosse, che lascia grande libertà, magari controlla all’inizio prima che il progetto parta ma poi non li si vede e non li si sente, per te non è stato così
“No, non è stato così. Ma nel bene eh, abbiamo fatto 5 versioni solo del copione della prima puntata”.
Sbaglio se dico che Tutto chiede salvezza è probabilmente la cosa più drammatica che tu abbia scritto?
“No non sbagli, di certo una scena come quella della crisi non mi ci ero mai nemmeno avvicinato a scriverla. Di nuovo però è parte dell’attacco, le prime due puntate hanno una forte vena drammatica, poi entra di più la commedia”.
È la seconda volta di seguito che giri qualcosa in un ospedale
“Eh si, se poi ci metti anche la malattia di Giuliano Montaldo in Tutto quello che vuoi... Chi lo sa. Non ci ho pensato, te lo dico, ho letto il romanzo e mi sono subito appassionato, non ho pensato che di nuovo avrei girato in un ospedale. Poi quando abbiamo fatto i sopralluoghi quella struttura che abbiamo trovato mi ha folgorato. Bellissima! Ho subito voluto quella. Sai volevo proprio quel mondo lì senza filtri. Gli ospedali italiani spesso sono proprio brutti e in quello ci trovo qualcosa di espressivo, di forte. È stato un motivo di discussione con Netflix che invece avrebbe voluto ingentilirlo con la scenografia. Qualcosa lo abbiamo fatto, un po’ ho seguito i loro consigli ma un po’ no”.
Questa non è una storia creata interamente da te ma come spesso avviene nei tuoi copioni la risposta è sempre negli altri, e in particolar modo nella parte più debole degli altri.
“Si, il superpotere della fragilità lo chiamiamo. È vero, è un po’ un modo di vedere il mondo, il fatto che esista una forza in questo. Non sono il tipo che scrive protagonisti forti. Non mi piace e ammetto che è anche un po’ il segreto di tutte le commedie”.
Ad ogni modo nella parte della tua carriera da regista mi pare che di volta in volta le storie che scegli di girare abbiano sempre personaggi dall’età che in quel momento hanno i tuoi figli
“Eh si, non ti nascondo che è un po’ un percorso questo nel disagio giovanile, qualcosa che mi interessa moltissimo e che ho avuto modo di esplorare non solo attraverso i miei figli ma anche osservando i ragazzi. Io abito a Trastevere e nella scalinata sotto casa mia era un continuo (prima del covid, ora meno) che ci fossero ragazzi anche a tarda notte”.
Ti metti in finestra e li guardi?
“No no, li sento perché non ne posso fare a meno. Mi svegliano. Litigano, urlano, si menano. Alle volte senti delle grida e poi scopri che stanno festeggiando un compleanno”.
Le segui le serie per ragazzi? Te lo chiedo perché proprio Netflix ne ha fatto una bandiera e sono molto interessanti
“No devo dire. Ho dato un’occhiata a Prisma che mi pare pregevole e basta. Ho visto Euphoria perché mi ha costretto mia moglie”.
Non ti piacciono le serie?
“No, non mi piace legarmi ad un racconto così lungo, se posso preferisco andare al cinema ecco”.
Che non è il massimo detto da uno che ha appena scritto e diretto una serie
“AHAHAHHAAH no infatti!”.
Eppure da sempre la nuova serialità viene raccontata come l’apoteosi degli sceneggiatori, il campo di espressione migliore per loro
“Questo è molto vero, è un racconto grande e finalmente mi ci sono potuto misurare. È una cosa che mi ha fatto molto piacere perché da sceneggiatore di film ti trovi continuamente a vederti tagliate cose. Specialmente con Paolo [Virzì ndr] scrivevamo insieme tantissimo e molto o non veniva girato o magari girato e tagliato, che è una cosa che ti dispiace sempre”.
Dopo Tutto chiede salvezza ti è venuta voglia di fare altre serie?
“Non è un mistero che una la vorrei fare, il progetto ce l’ha Palomar, è una serie su Virgilio”.
Quindi in costume?
“Si si, è una storia di committenti e artisti, tutta sul fatto che lui l’Eneide lui non la voleva scrivere, era un poeta, fu Ottaviano Augusto a chiedergliela e a pagarla tantissimo. Alla fine Virgilio voleva fosse bruciata. Eppure è la più grande opera della letteratura latina. Ad ogni modo la prossima cosa che farò vorrei fosse il prosieguo di Scialla 10 anni dopo. Perché sono diventato nonno e voglio far diventare nonno anche Bentivoglio”.
Non hai l’impressione che i progetti italiani più interessanti e audaci oggi diventino più facilmente serie che film?
Questo non lo so però ti posso dire che ci sono dei film che avrei visto meglio come serie, anche Siccità per esempio, ha una tale ricchezza di storie che non sarebbe stata male come serie.
Avevi un obiettivo con questo film?
Nella mia speranza c’è il fatto che si rispecchino due generazioni: che i ventenni trovino rappresentato il loro malessere e in un certo senso ne siano consolati e che i loro genitori comincino a capire qualcosa di quel che passa per la testa dei figli, di cui spesso ignorano totalmente il disagio psichico. Ma non mi muove con questi pensieri, mi muovo perché mi appassiono. Quando ho iniziato il libro ho detto subito 'Porca miseria lo voglio fare!’”.
E da sempre c'era l'idea che tu dirigessi tutte le puntate?
"Si è una condizione per me, mi avevano proposto anche di lavorare con un altro regista così mentre uno gira l'altro monta le sue puntate ma non ho voluto. Meglio a questo punto che le faccia tutte un altro"
È cambiata negli anni la maniera in cui dirigi gli attori?
No quello no, penso sia un mio punto di forza, anche per la maniera in cui scrivo i dialoghi forse. Semmai penso sia cambiata la maniera in cui faccio il regista. Ho incontrato Rinaldi, un direttore della fotografia che mi ha fatto capire molte cose e ora addirittura muovo la macchina da presa! Con lui per la prima volta ho girato con una camera sola, che è un cambio non da poco, perché vuol dire che puoi illuminare la scena in maniera dedicata, e poi per l’appunto la muovi. Se pensi a Scialla era tutto inquadrature fisse campi e controcampi oppure risolvevo i dialoghi semplicemente tenendo i due attori in campo e inquadrandoli insieme. Un po’ una regia teatrale, anche perché non volevo chissà che montaggio, volevo un film sciallo. E ha funzionato!”.
Gli sceneggiatori sono passati alla regia da sempre ma hai notato che ultimamente accade con grande frequenza? Secondo te c'è una ragione di sistema?
"Mah... Mi verrebbe da dirti che si vedono tanti registi che continuano a fare film senza successo e senza riconoscimenti, film diretti in maniere incolori che non è strano pensare "Beh perché non potrei farlo anche io?", da parte di persone che magari come me hanno passato 30 anni sui set e qualcosa l'hanno imparata. Poi la scrittura è regia, mi verrebbe ad esempio naturale proporre ad alcuni sceneggiatori di esordire perché penso che gli sceneggiatori bravi abbiano l’immagine nel testo e alle volte nel passaggio da una persona all’altra l’immagine viene misinterpretata e si perde. Sono convinto ci siano sceneggiatori che farebbero bellissimi film".
Ad oggi come scegli quali copioni dare ad altri e quali dirigere tu?
“Non scrivo più per altri, l’ultimo credo sia stato Slam [in realtà è Lasciati andare dell’anno dopo, il 2017 ndr], proprio non mi chiamano più [ride]. Sai ho capito che da quando faccio anche il regista la percezione è cambiata. Un conto è se uno sceneggiatore va a dire al regista come pensa che una certa scena andrebbe fatta, un conto è se viene a dirtelo un altro regista. È un po’ una cosa di galli nel pollaio”.
E quindi non farai più lo sceneggiatore per altri?
“Non lo so, ci sono dei registi con cui vorrei lavorare ma non mi chiamano. Martone mi piacerebbe molto e pure Bellocchio, ma hanno i loro sceneggiatori…”.
Non sarebbero i primi che assocerei a te e ai tuoi copioni.
“Si ma oh! Io ho scritto film che vanno da quelli di Ficarra e Picone a Il capitale umano fino a Calopresti!”.
Però nelle tue storie le risposte si trovano sempre nella parte fragile degli altri, invece che aggrapparsi a delle rocce i tuoi personaggi si aggrappano a persone più fragili di loro. Nei film di Martone invece i protagonisti tendono ad avere dentro di sé la propria forza
“Sicuramente in questa storia ci ho visto anche questo, una parentela con un percorso di pensiero che ho sempre praticato, non mi piacciono i protagonisti virtuosi, non mi piacciono i protagonisti eroici. Mario Martone però lo ammiro perché è una persona colta e penso che lavorando con lui imparerei molto a livello culturale. Siamo amici, ci frequentiamo ed è un piacere stare in sua compagnia. Penso la stessa cosa anche di Bellocchio ma anche di Virzì eh, che è una testa pensante piena di cultura di vario tipo. Paolo è il più talentuoso che abbia mai conosciuto, è musicista, disegnatore, scrittore, regista… Cerco sempre qualcuno da cui imparare, se devo lavorare con un regista che non possa insegnarmi niente meglio lasciar perdere”.