TFF36 - Valerio Mastandrea al primo film da regista: "Tutto quello che so sul cinema l'ho imparato lavorando"
In una storia in cui non avrebbe stonato come attore, Valerio Mastandrea esordisce come regista
L’ha presentato a Torino il suo film, in concorso, con una evidente voglia di continuare a rimetterci mano temperata dalla consapevolezza (quasi lieta e liberatoria) “che tanto non si può più! Eh, che ci vuoi fare? È andata”.
“Quello che ho imparato l’ho imparato lavorando. Ho esordito nel 1993 e da lì ho sempre lavorato, facendo spesso le solite cose. Ho imparato lavorando in una macchina che alle volte demolisce la passione di molti, io invece sono stato fortunatissimo. Ci sono tanti registi da cui ho imparato anche perché sul set sono sempre stato uno molto svelto, uno che non aspettava di essere chiamato ma anzi molto curioso. Piccioni ad esempio è uno di quei registi con cui ho potuto misurare la capacità di muovere la macchina, Zanasi è un personaggio che dà una personalità fortissima ai suoi film e poi Gaglianone, Vicari, lo stesso Bellocchio con cui ho lavorato 3 anni fa e con il quale ho sentito la forza e la capacità del cinema di imprimere sulla pellicola, anche se la pellicola non c'è più.
Ho preso un po' da tutti insomma, magari non razionalmente, però mi sono accorto di come andare al cuore della scena senza fronzoli. A me per esempio due persone inquadrate larghe che parlano di una cosa drammatica mi fa molto più male se vado a sottolinearlo con un primo piano. Caligari non era così. Caligari diceva che i primi piani andavano fatti con lenti molto larghe perché diceva “Il cinema classico è questo”. Ma di Caligari penso ci sia tutta la parte dei vecchi. Non solo perché c’è un mare e una spiaggia e una spiaggia sporca eh... Non so cosa c’è ma qualcosa c’è.
Ad ogni modo quello che ho imparato da tanti registi è rinunciare all’approccio intellettuale, perché l’avere un giudizio su quello che racconti ti mette degli steccati. Invece rimanerne stupito anche tu e lasciarlo incompleto fa bene al film, sempre perché rende libero lo spettatore”.
Non stupisce che tu sia voluto partire da un contesto romano allargato ma molto che la protagonista sia invece un alieno che viene dal nord...
Avevi paura di dare così tanto spazio a dei bambini?
“Avevano 6-7 scene di tre pagine e mezzo, molti pianisequenza ma sono stati allenati benissimo da un dialogue coach, che è un attore, con cui hanno lavorato due mesi. È il sogno di tutti mettere in bocca ai bambini dei concetti come quelli del film, poi la realtà è più complessa ma è stato bello lavorare con loro”.
Spesso nei personaggi che scegli di interpretare c’è questo retrogusto d’inadeguatezza che si trova tanto in questo film, infatti tu non avresti stonato tra il cast!
“Beh sì quella è però la cosa più facile eh, il disagio è una delle condizioni che più si prestano alla malinconia ma pure all’allegria. Pensa ad Hollywood Party e al disagio di Peter Sellers, il disagio è universale e tutti ci si riconoscono. Ad ogni modo ad un certo punto è stato Renato Carpentieri a farmi capire che non dovevo dirigere tutti come me, cioè a me veniva spontaneo dare indicazioni a tutti pensando a come l’avrei fatta io, invece lui mi ha fatto capire che doveva lasciarli liberi di fare a modo loro”.
La situazione che hai scelto, il lutto, è il massimo del disagio e quella carrellata di personaggi che le entrano in casa sono l’apoteosi del disagio...
“Ecco quelli li avevamo definiti dei “brand del dolore”, sono dei testimonial che entrano nella casa di lei per dimostrarle come si sta male. Poi però vedi che stanno male sempre per se stessi ma lei lo stesso li studia e quando se ne vanno prova a fare quel che fanno loro. La stessa Milena Vukotic che è il personaggio più classico, quello che chiede alle donne di essere come nella cultura patriarcale, truccate molto donne che fa un’esaltazione della serenità rispetto alla morte e poi come si rompe il femore dice: “Femore! Femore! Che banalità!” che detta da lei è la battuta che mi fa più ridere di tutto il film”.
Ne avevate scritti anche altri di questi testimonial?
“No erano sempre stati solo questi”
Un’altra cosa che mi pare molto tua e non viene dai tuoi modelli è tutto quest’uso della musica.
“Sì perché è la sua. Lo dice ad un certo punto che mette la musica per provare a piangere. Per questo se ci fai caso i brani partono un attimo dopo e finiscono un attimo prima di quando non te l’aspetti, come se lei facesse on/off nella testa.
Comunque è vero ne ho usata tanta ma con un motivo, anzi a ripensarci qualcosa la potrei anche togliere ma non si può più e poi. E poi c’è un motivo per il quale sta là, la musica che racconta lei e lui, quella casa, quei mobili, quelle foto…”
Ci sono cose che hai imparato e che in un secondo film non rifaresti?
“No devo dire di no, inconsapevolmente gli errori fatti li conosco e sono errori di estremo rigore e molta radicalità su certe cose per poi aprirmi altrove”
Intendi che avevi deciso che certe cose sarebbero state in una certa maniera e non volevi tornare indietro?
“Sì ero molto duro con il pubblico non gli volevo spiegare per forza tutto e mi ero fissato su certe cose che non volevo dire, però poi a scapito di altre cose su cui invece li ho accompagnati un po’. È un tipo di ricerca che credo sia normale in un primo film, almeno per me. Poi ci sono pure quelli che al primo film fanno il loro capolavoro”.