Selfie, il documentario di Agostino Ferrente: "L'unico mio film in cui i soggetti si sono scelti da sè"

Come Agostino Ferrente ha realizzato Selfie, uno degli esperimenti più radicali nel campo del documentario

Critico e giornalista cinematografico


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Non è decisamente un film scritto e girato convenzionalmente Selfie. Non è un documentario d’osservazione, sembra più un film partecipato, cioè quei film in cui un regista monta materiale girato da altri, ma in realtà la questione è più complessa di così e frutto del percorso che Agostino Ferrente ha intrapreso dagli anni ‘90.
Il risultato finale è un modo originalissimo di documentare e annullare alcune mediazioni senza perdere la mano dell’autore.

Ferrente nel 1999 in Intervista a Mia Madre già dava le videocamere ai suoi soggetti per evitare che si sentissero troppo osservati ma si sciogliessero nel dover pensare alle tecnicaglie, per farli tornare spontanei. Ora 20 anni dopo con i cellulari cambia tutto, è molto più semplice affidare le riprese ai soggetti, anche se poi dietro di loro rimane sempre la troupe, il regista e gli assistenti ad aiutarli e curare le inquadrature. Così è nato Selfie, da un interesse di ARTE (il canale francese) e dal disinteresse invece di Ferrente, che un altro documentario su Napoli non lo voleva proprio fare.

Io proprio non voglio più fare documentari, perché ci metto troppo, ne faccio uno ogni 5-10 anni, non so avere un approccio veloce ma mi serve che passi il tempo. E soprattutto non volevo più fare documentari su Napoli, invece era proprio quello che mi chiedevano. Così gli ho detto che non volevo, a meno che non mi facessero fare come mi pareva e piaceva. Perché già avevo in mente quest’idea estrema”.

Il primo problema qual è stato?

Trovare dei soggetti che potessero anche riprendere. Avevo iniziato con le scuole di cinema e avevo trovato dei ragazzi molto bravi, ma erano un po’ nerd, non avevano davvero delle vite interessanti. Così ho cominciato a fare quelle interviste che si vedono nel film. Di certo visto che mi interessava il mondo in cui è morto quel ragazzo di 16 anni a cui la polizia ha sparato per errore volevo dei suoi coetanei. Ero seduto ad un bar parlando con il padre della vittima e noto questo cameriere interessante, scopro che ha l’età giusta e visto che stava andando alla processione della Madonna di cui è molto devoto gli chiedo di riprendersi con un cellulare che gli dò. Ne esce quella ripresa che si vede in cui lui ad un certo punto si commuove e tuttavia non smette di riprendere. Quando l’ho vista ho capito che era la persona giusta.
Il giorno dopo che gli comunico di averlo scelto mi viene a trovare un altro ragazzo, con i baffi, un amico del primo, che mi dice che non posso fare un film sul suo amico senza di lui, perché senza di lui non è lo stesso e se voglio farlo questo film dovrò includerlo. Insomma è la prima volta che i personaggi di un mio film mi si impongono”.

Come erano organizzate le riprese?

Io non volevo il film partecipato, non ci credo, non ha senso per me. Quindi non volevo delegare a loro il compito di scegliere cosa e come riprendere, c’eravamo noi della troupe, una troupe leggera eh, dietro di loro ad aggiustare le inquadrature e spiegargli il linguaggio filmico (perché la tecnologia la conoscevano pure meglio di noi). Però devo dire che con il tempo hanno preso coraggio e alla fine si infastidivano all’idea che mettessimo mano, mi davano gli schiaffi sulle mani quando mi intromettevo

Che cosa avete usato?

Un iPhone 7 ma Plus per avere uno schermo più grande, non mi interessava la bella ripresa ma che loro si specchiassero. La sola cosa che gli abbiamo insegnato è stato a guardare lo sfondo, inquadrare se stessi e badare allo sfondo. Per controllare mi sono pure inventato un sistema mio: avevo attaccato due telefoni dorso contro dorso, loro si riprendevano con la videocamera frontale di uno e io, stando dall’altra parte, invece vedevo cosa era inquadrato dalla videocamera posteriore dell’altro”.

Come mai volevi si inquadrassero sempre?

Perché mi interessa lo sguardo loro non la solita Napoli. In questi anni il cinema si è innamorato delle borgate del mondo e Napoli è diventata il centro di molto di questo interesse. La nuova cartolina di Napoli è quella delle borgate, il look Gomorra. Quindi dovendo fare un documentario su Napoli non volevo cercare di nuovo quelle immagini, molto meglio inquadrare loro, i soggetti. Tanto cosa guardano lo sappiamo, meglio la loro vita

Hai visto Italy In A Day?

Lo conosco ma non l’ho visto. Il film partecipato mi interessa poco

In comune con Selfie ha un linguaggio visivo selvaggio e naive…

Sì, considera che loro due non vogliono fare cinema, ma il barista e il barbiere. Se glielo fanno fare. Molte inquadrature di momenti forti sono terribili, non siamo riusciti ad aggiustarle in tempo ma alla fine va bene così, è il loro sguardo”.

E l’audio?

Per il 90% è preso dal cellulare quindi ambientale solo in pochi casi ho usato un fonico

Il documentario racconta un’estate e basta, come mai? Non avevi detto che ti serve tantissimo tempo per un documentario?

Eh ma io volevo farlo più lungo, solo che a metà Pietro m’ha mollato! Io volevo fare anche il capodanno, che a Rione Traiano praticamente è come stare a Bagdad, ma lui si è stufato. E aveva ragione, perché il documentario d’osservazione prevede che tu continui a fare la tua vita, che non ti condizioni per la presenza della troupe (ma come ho già detto secondo me è una follia), invece noi li facevamo lavorare impedendogli di trovare un lavoro vero. Certo gli abbiamo dato un rimborso, perché alla fine hanno lavorato come operatori, ma ad un certo punto Pietro si è stufato, si è sentito sequestrato, non ne poteva più di questo progetto. Inoltre non si trovava troppo con Alessandro il quale non voleva che ci fossero riferimenti alla Camorra nel film (voleva raccontare le cose belle), invece Pietro diceva che il senso forte è che attorno a ciò che riprendono e al loro desiderio di onestà ci sia una guerra. Paradossalmente la loro disputa è la stessa che esiste dentro di me”.

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